di Petra Di Laghi – storica
La prima della Repubblica Italiana, e la più grave.
Estate 1946, Pola. La città vive un clima di attesa dove momenti di speranza si alternano a quelli di sconforto. Dalla Conferenza di pace di Parigi le notizie non sono rassicuranti. Il 3 luglio le grandi potenze propendono per un accordo che prevede il passaggio del capoluogo istriano alla Jugoslavia del generale Tito. Quello stesso generale le cui truppe, al termine del secondo conflitto mondiale, per “quaranta giorni” avevano scatenato il terrore nell’intera regione istriana procedendo ad arresti, deportazioni, condanne e uccisioni contro chiunque fosse stato ritenuto un oppositore del nuovo regime o presunto tale. Un terrore che i polesi, nonostante i due anni di calma apparente grazie al temporaneo comando della città da parte del Governo Militare Alleato, non avevano certo dimenticato. Le occasioni di protesta contro le decisioni di Parigi sono molte. Sin dal 12 luglio è iniziata la raccolta delle dichiarazioni dei cittadini che intendono lasciare Pola nel caso della sua cessione alla Jugoslavia: su 31.700 abitanti, 28.050 scelgono l’esilio. Il 15 agosto in città viene indetta una manifestazione patriottica a favore dell’Italia nella bellissima “Arena”, l’anfiteatro romano costruito tra il 2 a.C. ed il 14 d.C. sotto l’imperatore Augusto, da allora simbolo del capoluogo istriano. Una dimostrazione d’italianità che vede impegnata «un’autentica “massa” di polesi radunati entro le stupende arcate del glorioso monumento, per una festa prettamente italiana», scrive il giornale “L’Arena di Pola” due giorni dopo. Già dai primi di agosto, il quotidiano ha invece diffuso alcuni annunci per lo svolgimento di un’altra celebrazione prevista per il 18 agosto: la “Coppa Scarioni” indetta dalla Società Nautica “Pietas Julia”.
Il programma prevede al mattino le eliminatorie di stile libero, dorso, rana e le staffette con disputa della finale prevista per le ore 11.45. Il pomeriggio invece è occupato dalla gara della «leva dei tuffatori», dal «torneo palla a nuoto» e dalla «gara di tiro alla fune in acqua». Una folla gremita, fra cui molti bambini, si presenta all’appuntamento, manifestando la propria adesione per celebrare il sessantesimo anniversario dell’associazione sportiva che porta l’antico nome latino della città. Sono le 14,10 e in acqua si stanno svolgendo le ultime gare natatorie previste per la mattinata. All’improvviso un boato scuote l’aria che si fa sempre più nera, mentre una colonna di fumo si innalza nel cielo. Una polvere densa pervade l’atmosfera. Ventotto mine di profondità ammassate sull’arenile per un totale di nove tonnellate di tritolo, materiale bellico apparentemente disinnescato, esplodono improvvisamente tra la folla dei bagnanti. Sulla spiaggia lo scenario che si presenta ai primi soccorsi è agghiacciante. Corpi mutilati, dilaniati e alcuni perfino polverizzati emergono dall’acqua. Brandelli di carne ricoprono la spiaggia e la pineta, mentre i gabbiani ne fanno banchetto.
I feriti vengono portati per la maggior parte all’ospedale civile “Santorio Santorio”, dove Geppino Micheletti, l’unico chirurgo rimasto, opera per ore i corpi straziati delle vittime. La maggior parte sono bambini. Fra i volti di quei fanciulli il dottore non ritrova però quelli dei suoi due figli: Carletto di 9 anni e Renzo di 6. Partecipavano anche loro alla festa domenicale, ma sono stati travolti dalla tragica esplosione. La notizia non ferma Micheletti che passa eroicamente fra le corsie e poi ritorna nella camera operatoria, ripetendo che quello è ora il suo dovere.
Centinaia i feriti e forse altrettanti i morti, ma due giorni dopo solo 64 salme vengono composte nelle bare. Trentasette sono le vittime identificate immediatamente, quattro quelle da riconoscere nei giorni successivi insieme ai numerosi resti umani che dovrebbero corrispondere ad altri 17 cadaveri. Molti gli scomparsi denunciati dai parenti alle autorità competenti. Fra le salme deposte c’è anche il corpicino del povero Carletto, mentre solo una scarpa e qualche giocattolo sono riposte nella bara del piccolo Renzo, i due figli del dottor Micheletti.
“Pola è in lutto” si legge a caratteri cubitali nella prima pagina del giornale “L’Arena di Pola” il giorno seguente.
Sebbene i colpevoli non vengano identificati, dietro a quel tragico “incidente” la popolazione vede ancora una volta la pressione psicologica e gli atti intimidatori degli jugoslavi che in tal modo volevano “persuadere” gli italiani ad abbandonare quelle terre. Solo nel 2008, alla luce delle indagini di Fabio Amodeo e Mario J. Cereghio negli archivi del Public Record Office di Kew Gardens (Londra) è emerso il testo di un’informativa riguardante la strage di Vergarolla, secondo la quale l’esplosione sarebbe stata, appunto, un attentato pianificato dall’OZNA, il servizio segreto jugoslavo.
Diffidenza, angoscia, paura sono sentimenti che pervadono tutti i cittadini di Pola nei mesi successivi, in cui quella strage indica un’unica e drammatica via per la sopravvivenza: l’esilio. Inizia così la lenta agonia di Pola che a partire dal 3 febbraio 1947 si svuota quasi completamente dei propri abitanti. Fra loro c’è anche Geppino Micheletti, l’«eroe di Vergarolla», insignito nel 1947 dallo Stato italiano della medaglia d’argento al merito civile. Parte anche lui, dicendo: «Non voglio un domani ritrovarmi a curare gli assassini dei miei figli».
Da quel momento, la tragedia di Vergarolla e la storia di Geppino Micheletti rimangono per quasi settant’anni confinati nella sola memoria dei loro protagonisti. Un episodio della storia italiana a lungo dimenticato e sottaciuto. Ma di cosa si trattò esattamente? Un incidente, una tragedia oppure una strage? Un’azione «di violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne o restaurarne l’ordine» (voce terrorismo, vocabolario “Treccani”), ovvero il primo attentato terroristico della Repubblica Italiana, sebbene pochi lo sappiano e persino le istituzioni, la politica e i media lo ignorino, anno dopo anno, ancora oggi.
———————————————————————————————————————-
L’ultima spiaggia
di Alessandro Quadretti – regista e storico
Il mio interesse verso la drammatica vicenda di Vergarolla è dovuto essenzialmente a due ragioni: sono esule di seconda generazione – mio padre, Antonio, nacque a Pola nel 1932 e la lasciò nel febbraio del ’47 dopo aver perso il padre Italo per mano dei titini – e, prima di diplomarmi alla Scuola di Cinema, ho conseguito la laurea in Storia contemporanea. Ma i miei studi accademici in quel di Bologna non hanno mai stimolato una curiosità verso le vicende del confine orientale, quindi mi sono avvicinato a quegli avvenimenti solo grazie al vissuto familiare e ai racconti di mia nonna e di mio padre.
Ho spesso diretto documentari storici e sono molto interessato a quei capitoli o personaggi che la narrazione ufficiale tralascia e dimentica: ecco perché nel 2011 nacque l’idea di produrre un documentario sulla più grave strage di civili avvenuta in Italia dalla fine della seconda guerra mondiale. Io e l’amico storico Domenico Guzzo strutturammo un progetto che presentammo al Libero Comune di Pola in Esilio; fu subito approvato ma passarono più di tre anni prima che i fondi derivanti dalla ex Legge 16 2001 n. 72 ci permettessero di iniziare le riprese, sostenuti anche da un crowdfunding a cui aderirono decine di persone, tra cui Simone Cristicchi. Il documentario uscì nel 2016 e ha ottenuto importanti risultati: oltre alle tante proiezioni nei cinema e nelle scuole, è stato trasmesso da Rete4 nel 2016 e dalla RAI che, nel 2018, ne ha acquistato i diritti per dieci anni.
Il lungometraggio ripercorre sinteticamente le vicende dei territori italiani di Istria e Dalmazia negli ultimi due secoli, focalizzandosi poi su quanto accadde tra il 1943 e il 1947 e analizzando soprattutto l’evento di Vergarolla e le sue conseguenze sugli italiani che, di lì a poco, avrebbero scelto definitivamente l’esodo. Gli studi storici erano carenti per cui fu inevitabili scegliere di affiancare alle interviste di studiosi del calibro di Giuseppe Parlato, Raoul Pupo, Federico Siboni e Gaetano Dato, le testimonianze di coloro che vissero in prima persona la strage del 18 agosto1946.
————————————————————————————————————————
Il volume La strage di Vergarolla (18 agosto 1946) secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive, scritto dal giornalista Paolo Radivo e richiedibile all’Associazione Italiani di Pola e dell’Istria – Libero Comune di Pola in Esilio che lo editò nel 2016, è composto da tre capitoli. Il primo analizza come la stampa regionale raccontò l’evento e i relativi sviluppi. Il secondo raccoglie tutti gli articoli delle testate giuliane coeve di lingua italiana, slovena e croata. Il terzo compara le fonti giornalistiche di allora con quelle archivistiche, giornalistiche, bibliografiche e orali successive, fornendo nuovi elementi e chiavi di lettura sulla strage probabilmente più sanguinosa dell’Italia repubblicana.
Grazie a questo libro di 648 pagine ora ne sappiamo di più sulle gare natatorie svoltesi quella domenica mattina, sul luogo (una spiaggia del capoluogo istriano) e l’orario dello scoppio (le 14.15), sull’impatto materiale e psicologico causato alla cittadinanza, sul numero e le caratteristiche (ancora incerti) degli ordigni esplosi, sui soccorsi e le cure, sul lutto cittadino, sul numero esatto e i dati anagrafici dei morti identificati e sepolti (64) nonché di quelli non identificati (una quarantina?) e dei feriti (25, 53 o 76?), sui funerali, sul cordoglio e la solidarietà, sul recupero degli effetti personali delle vittime, sulle benemerenze al dottor Geppino Micheletti che operò tanti feriti gravi, sugli 80 beneficiari del sussidio corrisposto (perlopiù dal Governo italiano) tramite la Presidenza di Zona, sulle indagini ufficiali delle autorità anglo-americane, sulle polemiche circa le responsabilità, sulla rimozione degli ordigni residui dalla città, sulla natura (quasi certamente dolosa) dello scoppio, sui possibili esecutori e mandanti, sul movente, sull’offensiva terroristica condotta dai titini contro i filo-italiani e gli anglo-americani nella Venezia Giulia, sulle altre piste ventilate oltre a quella jugoslava (la più verosimile), sull’indagine della magistratura italiana subito avocata per competenza dal Governo Militare Alleato, nonché sullo scenario politico-diplomatico.