di Carolina Attanasio
Sicuramente state vivendo una stagione diversa da quella che vi eravate prospettati qualche mese fa. E se questo non fosse necessariamente un male?
Questo non è un articolo, è una curiosa previsione. L’ho scritto a fine aprile, a pochi giorni dalla Fase 2 che dovrebbe permetterci di respirare un po’ d’aria fuori dalle case in cui ci hanno rinchiusi per settimane. Com’è andata la vostra quarantena? È già solo uno strano ricordo che vi preparate a raccontare a chi verrà?
Onestamente, spero stiate leggendo queste righe sdraiati in spiaggia, o lungo un cammino solitario. Oppure godendovi il silenzio della campagna, o vagando per qualche borgo. Perché, in effetti, è così che mi sto immaginando le vacanze estive, tutti attenti a non confonderci con una massa troppo vasta di altre persone.
Per lavoro e per curiosità, ho passato le mie giornate di marzo e aprile a pensare a possibili scenari del nostro ritorno al viaggio al termine del periodo di isolamento, e tutta la mia immaginazione è andata lì, verso un’estate lenta. Così lenta da somigliare a quella che i nostri genitori e i nostri nonni ci hanno sempre raccontato, su un tempo relegato a trenta, cinquanta, settanta estati fa. Ve la siete immaginata anche voi così, mentre panificavate come se non ci fosse un domani, a marzo?
Alla vigilia di una conferenza stampa che stabilirà i come e i quando della nostra liberazione, e senza un vaccino che ci riporti dove eravamo prima, lo scenario che si presenta è quello di un’estate italiana, fatta da italiani. La prima cosa che mi chiedo è, vogliamo davvero tornarci a dove eravamo prima? Messi di fronte a un cambiamento forzato, ci teniamo così tanto a far sì che le cose tornino, esattamente, com’erano? Forse possiamo fare di meglio, o quantomeno diversamente. Ripartire lentamente, a pensarci, è un’idea che costa un grande sacrificio, ma potrebbe dare buoni frutti. Intanto perché ci dà il tempo di riappropriarci di spazi e momenti, e poi perché ci aiuta a ridefinirli, insieme ai nostri bisogni reali.
In queste settimane sto conducendo un sondaggio che evidenzia come il desiderio di viaggiare non sia quasi mutato, se non per una buona dose di preoccupazione che concerne le conseguenze dei nostri spostamenti su portafoglio e salute. Alcuni di noi hanno dovuto ridefinire priorità e budget, per cui non sanno se potranno effettivamente muoversi e, se sì, lo faranno innanzitutto per andare a trovare parenti e amici. Quello che tutti sembrano volere è andare a godersi spazi aperti e natura, possibilmente lontano da altri che non siano quelli che conoscono. Ricominciare dalla natura, la stessa natura che in queste settimane primaverili si è riappropriata timidamente degli spazi che il tempo le ha sottratto. Chissà se riusciremo a definire un rapporto con la natura finalmente un po’ diverso.
Molti hanno interpretato la pandemia che ci ha colpiti come il segno definitivo che la vita così come la conosciamo debba cambiare, e che la nostra fame di mondo debba necessariamente ridefinire i suoi ritmi, o saranno loro a ridefinire noi. Quel che è certo è che quando l’ambiente che ci circonda cambia, costringe a cambiare anche noi. Chi si adatta vince, così come chi riesce ad anticipare i bisogni derivanti dal cambiamento.
Come ci muoveremo? Continueremo a fagocitare il mondo a un ritmo forsennato o ricominceremo ad assaporarlo lentamente, godendocelo? La domanda è d’obbligo, poiché è la situazione a richiederlo. La risposta potete darvela in questo stesso momento, mentre vi guardate intorno. Ognuno di noi, nelle settimane di isolamento, ha osservato fuori dalla finestra, giurando di aver intravisto qualcosa di diverso dal solito, ma non saprebbe dire cosa. Il paesaggio sembra sempre quello, le cose sono nella loro solita posizione, giorni e notti si susseguono incuranti delle nostre pene terrene.
Proust ci insegna che il vero viaggio di scoperta consiste nell’avere nuovi occhi, e probabilmente questo è quanto ci sta succedendo.
La lentezza a cui siamo stati costretti è così tremenda, o è l’inizio di qualcosa di bellissimo?