*di Paolo Di Giannantonio*
Chiudiamo gli occhi e cerchiamo di tornare indietro di 2600 anni. E immaginiamo di trovarci in uno dei punti più difficili del Mediterraneo, in quel Mare Adriatico che da sempre, anche prima di 2600 anni fa, era temuto per le sue tempeste improvvise, per i suoi cambi di umore più rapidi di quelli di Zeus e di Era, sua moglie. E adesso immaginiamo di far parte di quell’equipaggio che sta portando merce preziosa sulle sponde della Puglia o, forse, più giù, della Calabria o della Sicilia. Tornando a casa porteremo indietro ricchezza, merci, racconti di avventura, di genti straniere, speranza di nuovi affari. Siamo stanchi, perché la nostra è una nave oneraria, difficile da governare. E poi ci si mettono Poseidone, dio del mare, e Eolo, suo figlio, signore dei venti. Chissà perché sono infuriati. E scatenano su di noi la loro ira. Lottiamo strenuamente, con le vele, con i remi, ma no, non ce la facciamo. L’ennesima onda colpisce la nostra fiancata e andiamo giù, con Il nostro prezioso carico, con le nostre speranze, sentendo sulla nostra carne il dolore di chi non ci vedrà più tornare.
Ecco. E torniamo ad oggi. A 22 miglia dal porto di Otranto, in un tratto di mare profondo quasi 800 metri, è stato ritrovato il relitto di quella nave. Adesso stacchiamo con l’immaginazione e andiamo ai fatti. Barbara Davidde da un anno è a capo della neonata “Soprintendenza Nazionale per il Patrimonio Subacqueo”.
“La scoperta è avvenuta durante i lavori di archeologia preventiva che affiancavano le operazioni di posa delle condotte del Tap, il metanodotto che porta in Italia il gas dell’Azerbaijan. Era il 2019 quando il ROV, il sommergibile teleguidato, ha individuato i resti di questa nave oneraria. Circa 200 reperti: sono anfore, grandi contenitori ceramici detti pithoi, piccole coppe ed altro. E, durante queste indagini, è stato deciso di recuperare una piccola parte del carico, 22 reperti che ora sono conservati nei laboratori della Soprintendenza, a Taranto”.
Tra gli altri: tre anfore della tipologia corinzia A, dieci skyphoi sempre di produzione corinzia, tre oinochoai trilobate in ceramica comune ed una brocca, anch’essa manufatta a Corinto. Quello che però ha destato la sorpresa e l’entusiasmo degli studiosi è stato il pithos che conteneva, perfettamente impilati, gli skyphoi che sarebbero stati venduti nei mercati della Magna Grecia.
“Quindi la nave proveniva da Corinto, che era una città potentissima agli inizi del VII secolo avanti Cristo. Il ritrovamento testimonia gli intensi rapporti commerciali tra Corinto, la madre patria, e le città costiere della Puglia e del Salento. Probabilmente era diretta ad Otranto, ma ancora non ne siamo sicuri. Studi più dettagliati del materiale recuperato potranno darci risposte più precise nelle prossime settimane, nei prossimi mesi”.
Grande è stato l’interesse della comunità scientifica internazionale: “Non appena abbiamo trovato questi materiali abbiamo invitato gli studiosi della Magna Grecia, gli storici – sia italiani, sia stranieri – a visitare il nostro laboratorio e a confrontare e condividere le rispettive idee di datazione. I risultati verranno in seguito ma saranno preziosi”. Possiamo dunque ipotizzare che debba essere retrodatata una parte delle nostre acquisizioni storiche: “Questo ritrovamento è molto importante perché ci data e ci descrive una fase della Magna Grecia ai suoi albori. Riuscire, quindi, a recuperare il resto del carico ci permetterebbe di fare ulteriori studi sui rapporti commerciali tra la Grecia e le sue colonie.
Certo non è facile il recupero a quasi 800 metri di profondità. “Sono state utilizzate delle tecnologie molto moderne e innovative. E’ stato utilizzato un braccio mobile che era collegato al ROV, al sommergibile teleguidato ed è stata un’operazione complicata e delicatissima. E’ una delle prime volte che si effettua un recupero del genere”. In alcune delle anfore recuperate sono stati trovati, addirittura, dei noccioli di oliva. “Li stiamo facendo analizzare perché potranno darci informazioni molto utili sulle piante di olive che esistevano all’inizio del VII secolo a Corinto e che venivano lavorate e commercializzate in quel tempo”. Ne ha fatta di strada la ancor giovane disciplina della archeologia subacquea, in Italia. E’ nata intorno agli anni 50, grazie a Nino Imbruglia, che le diede una base scientifica. Ed ha ancora enormi margini di sviluppo. Specialmente nei nostri mari.
Si va bene, gli oceani sono sterminati ed il Mediterraneo contiene appena l’uno per cento delle acque del Pianeta. Ma un concentrato di storia e di arte di questo genere non ha eguali. “Il Mediterraneo in generale può essere considerato il più grande museo del pianeta – spiega Barbara Davidde -. Perché abbiamo, sott’acqua, i resti di civiltà di tantissimi periodi diversi: dai Fenici ai Greci, ai Romani. Ma poi c’è da prendere in considerazione anche il periodo medievale e poi quello rinascimentale e la Prima e la Seconda Guerra Mondiale.”
E scegliere è molto difficile: “Sono moltissimi i siti archeologici subacquei italiani che meritano di essere ricordati come scoperte importanti. Voglio citargliene solo alcuni: per esempio Baia Sommersa, vicino Pozzuoli. E’ situato in un’area marina protetta e conserva, sott’acqua, i resti di antiche ville lussuose di età imperiale, con i mosaici e gli apparati decorativi ancora ben conservati, che i subacquei possono esplorare senza dover scendere ad alte profondità. E ancora: vorrei parlarle dei relitti di antiche navi onerarie, quelle adibite al commercio, che sia in età greca sia in età romana hanno solcato il Mediterraneo e che, purtroppo, sono naufragate al largo delle nostre coste. E potranno narrarci i rapporti commerciali, e non solo, che ci sono stati tra i vari paesi. E guardi che la nostra civiltà è diventata tale proprio grazie a questi scambi”.
La sfida, adesso, è di conservare adeguatamente queste ricchezze, coniugando l’esigenza di preservarle con la possibilità di renderle fruibili al più alto numero di persone. E il turismo sub è decisamente un argomento interessante. Grazie a quanto mai opportuni fondi europei la Soprintendenza ha progettato itinerari subacquei in vari siti italiani. A Baia e nel porto romano di Egnazia, solo per fare un esempio. E grazie alla tecnologia, all’internet subacqueo, si potranno visitare in realtà aumentata alcuni degli angoli più belli e spettacolari. L’obiettivo, dice Barbara Davidde, è investire molto nelle generazioni più giovani: “Dobbiamo avvicinare gli universitari ma anche i più piccoli a questo mondo, dobbiamo incuriosirli. Perché solo grazie alla curiosità si possono fare le grandi scoperte”.
E, a proposito, e per chiudere: i volontari per le campagne sottomarine, già dalla prossima primavera, sono i benvenuti.