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FAMIGLIA E SOCIETÀ
Neuropsichiatra infantile,
neurofisiopatologo, presidente
dell’associazione Mi.Pi.Aci., opera da
trent’anni nel campo del disagio giovanile.
Esperto di problematiche relative alla
genitorialità, conduce corsi in ambito
scolastico per promuovere la conoscenza
dello studente portatore di disagio
di Bruno Pisani relazionale. www.associazionemipiaci.it
La povertà ai nostri tempi
un destino cieco di fronte al quale non possiamo fare nulla. E
quando la miseria cessa di avere un volto, possiamo cadere
nella tentazione di iniziare a parlare e a discutere su “la fame”,
“l’alimentazione”, “la violenza”, lasciando da parte il soggetto
concreto, reale, che oggi ancora bussa alle nostre porte.
Quando mancano i volti e le storie, le vite cominciano a
diventare cifre e così un po’ alla volta corriamo il rischio di
burocratizzare il dolore degli altri. Le burocrazie si occupano
di pratiche; la compassione si mette in gioco per le persone.
Questo ci impone un intervento su scala in cui venga posto
come obiettivo dei nostri sforzi la persona concreta che soffre
e ha fame, ma che racchiude anche un’immensa ricchezza
di energie e potenzialità che dobbiamo aiutare a esprimersi
concretamente.
Ci farà bene ricordare che il cibo che si spreca è come se lo si
rubasse dalla mensa del povero, di colui che ha fame. Questa
realtà ci chiede di riflettere sul problema della perdita e
dello spreco di alimenti, al fine di individuare vie e modalità
che siano veicolo di solidarietà e di condivisione con i più
bisognosi. La politica e l’economia tendono a incolparsi
reciprocamente per quanto riguarda la povertà e il degrado
ambientale. Ma quello che ci si attende è che riconoscano
è un modo di considerare gli esiti dell’iniquità come i propri errori e trovino forme di interazione orientate al
C’fenomeni naturali, o peggio ancora, colpe di coloro bene comune. Mentre gli uni si affannano solo per l’utile
che ne sono vittime. È il caso della miseria e della povertà, economico e gli altri sono ossessionati solo dal conservare
come anche delle forme di esclusione e disuguaglianza che o accrescere il potere, quello che ci resta sono guerre o
affliggono il mondo del lavoro: la disoccupazione in primo accordi ambigui dove ciò che meno interessa alle due parti è
luogo, ma subito dopo le disuguaglianze di genere in materia preservare l’ambiente e avere cura dei più deboli. Anche qui
retributiva o di opportunità di carriera. La logica è la stessa, e vale il principio che “l’unità è superiore al conflitto”.
sempre uguale è il risultato: anestetizzare le nostre coscienze
abituandole a ciò che invece dovrebbe produrre interrogativi.
Una volta “naturalizzate”, le ingiustizie smettono di spingerci
ad agire per il cambiamento.
Un altro valore che in realtà è un disvalore è la tanto osannata
“meritocrazia”. Essa affascina molto perché usa una parola
bella: il “merito”; ma siccome la strumentalizza e la usa in
modo ideologico, la snatura e la perverte. La meritocrazia, sta
diventando una legittimazione etica della diseguaglianza.
Una seconda conseguenza della cosiddetta “meritocrazia”
è il cambiamento della cultura della povertà. Il povero è
considerato un demeritevole e quindi un colpevole. E se la
povertà è colpa del povero, i ricchi sono esonerati dal fare
qualcosa.
È necessario “de-naturalizzare” la povertà e smettere di
considerarla come un dato della realtà tra i tanti. Perché la
miseria ha un volto. Ha il volto di un bambino, ha il volto di
una famiglia, ha il volto di giovani e anziani. Ha il volto della
mancanza di opportunità e di lavoro di tante persone, ha
il volto delle migrazioni forzate, delle case abbandonate
o distrutte. Non possiamo “naturalizzare” la fame di tante
persone; non ci è lecito dire che la loro situazione è frutto di
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