Raffaella Cortese si racconta dalla sua galleria milanese guardando il mondo fra arte, pandemia e guerra.

apollonia nanni

*di Apollonia Nanni*

E se le donne governassero il mondo? Questa scritta al neon, suggestiva e provocatoria, lampeggiava nello spazio espositivo in via della Stradella 4, nel 2020 anniversario dei 24 anni di attività della Galleria d’arte Cortese, realizzata dall’artista israeliana Yael Bartana in occasione di Patriarchy is History, una mostra potente, inedita, indimenticabile. 

L’autrice della scritta al neon è una figura emblematica, la cui ricerca racchiude tanti valori e diverse tematiche legate alla storia della galleria, molto cara, direi tra le privilegiate da Raffaella Cortese, donna sensibile che ha fatto dell’arte la sua ragion d’essere. I suoi spazi espositivi sono la sua seconda casa: una volumetria sondata e custodita, ama camminare per le sale, ammirare le opere esposte e pensare a quelle in divenire. Per lei anche le pareti bianche, vuote hanno un senso, il ricordo dei tanti artisti che negli anni si sono avvicendati, depositari del mistero dell’arte, echeggiano ancora nell’atmosfera rarefatta i loro gemiti, i sospiri, gli affanni, la paura di fallire, il desiderio di creare, operarsi per il cambiamento, solo l’artista è capace di tale missione. 

L’arte demone sacro o tenera follia? Gli Artisti!  I “condannati all’arte” come mi piace definirli. La galleria Raffaella Cortese è una galleria d’arte contemporanea fondata nel 1995, a Milano. Dispone di tre spazi espositivi in zona Città Studi. Nel maggio del 1995 la Galleria Cortese apre, nella sua prima sede, una mostra dedicata alla fotografia concettuale dell’artista italiano Franco Vimercati (riproposta recentemente). La fotografia ha avuto un ruolo centrale nel programma espositivo, soprattutto durante i primi anni di attività. Fino al 2002 la Galleria presenta solo mostre personali, le si riconosce il merito di avere portato e fatto conoscere per prima in Italia artiste americane oggi note a livello internazionale, di scegliere l’opera e non il genere. Alcune collaborazioni sono solide e durature, come quelle con Marcello Maloberti e Miroslaw Balka, rapporti che si sono rafforzati sin dai primi anni di attività. Un quarto di secolo di mostre sempre intense nate dal dialogo con gli artisti e la loro volontà di sperimentare temi e modalità espressive. Passione, impegno, competenza, amore per l’arte hanno fatto di Raffaella Cortese una fucina di innovazione nella Milano da bere, la Milano dell’arte contemporanea, generatrice di personalità artistiche inedite. Ma lascio la parola a Raffaella che ci racconterà il suo iter in queste pagine. 

raffaella cortese

Cos’è che l’ha spinta ad aprire una galleria d’arte? Passione? Felici coincidenze? Il daimon dell’arte albergava già dentro di lei? La vita è quella cosa che ti succede fuori schema, è così?

 È la passione per l’arte che spinge un giovane ad aprire una galleria perché sente di non poter far altro. La passione insieme all’audacia e alla determinazione perché questo non è un lavoro facile, ma duro e stressante. Ancora oggi, così come quando ho iniziato 27 anni fa, questi ingredienti continuano a essere necessari insieme a molti altri, nuovi, perché il lavoro di galleria è cambiato moltissimo, così come il suo contesto. Ogni giorno c’è una sorta di adattamento al cambiamento, ma con un atteggiamento sempre più radicale nei confronti dei mali che affliggono l’arte.

Prima di aprire il mio spazio, sono sempre stata vicino all’arte. Ho frequentato l’Accademia e ho dipinto delle orribili tele che si chiamavano tensione numero 1, numero 2, numero 3. Poi mi sono resa conto che non sarei mai stata un’artista geniale e che, invece, il lavoro di galleria poteva essere il più adatto alle mie attitudini diversificate. Sono una persona poetica e allo stesso tempo estremamente concreta e fattiva, questi elementi convivono all’interno dell’attività di una galleria che, ricordo sempre, è un’impresa culturale e come tale ha le sue necessità commerciali. Ho sempre dato precedenza alle idee, al programma e alle mostre riuscendo anche a far quadrare i bilanci, un’acrobazia non da poco per chi fa questo lavoro senza seguire le mode. Nel mondo contemporaneo in continua trasformazione, continuo a credere in queste modalità e cerco di dedicarmi agli artisti, che adesso sono più di 30, e alle relazioni con i collezionisti così come critici e curatori, che arricchiscono la nostra visione dell’arte. 

 Un tempo nelle gallerie d’arte si dava più spazio all’idealismo che al mercato. Molti gli artisti che lavoravano solo per soddisfare un bisogno intimo, basti pensare Gino De Dominicis e le sue “opere vuote”, “opere invisibili”, refrattario anche a mostrarsi in pubblico e a mettere in mostra le sue opere. E oggi? L’artista, il visionario il dispensatore di sogni, verrebbe da dire, “non è più tra noi”, il suo ruolo è completamente ribaltato, è un imprenditore di se stesso. Cosa pensa in merito?

 Sono molto fortunata a lavorare con generazioni diverse di artisti che oggi hanno dai 40 agli 85 anni e che mi hanno dato la possibilità di capire e immergermi in molte e diverse modalità di lavoro e pensiero. Soprattutto penso alla generazione delle performer americane, come Joan Jonas e Simone Forti, che hanno lavorato su un terreno difficile dal punto di vista del mercato. Hanno spesso insegnato per poter vivere, almeno agli inizi, poi sono riuscite ad affermarsi, vivere della propria arte e avere delle grandi soddisfazioni economiche nella ricerca e scoperta continua. 

Questo idealismo è sempre stato una luce per tutti loro e di conseguenza anche per me. Gli incontri che fai e gli artisti che scegli per intraprendere un percorso insieme sono sempre dei grandi suggeritori e ti aiutano, paradossalmente, a mantenere un equilibrio. Guardo tantissimo a questi artisti così solidi, così motivati e che conoscono il senso dell’urgenza del fare arte, secondo me estremamente importante in un’epoca come questa di profondo disorientamento dovuto alla pandemia, alla guerra e alla rivoluzione tecnologica, dove l’arte è diventata così di moda e di facile intrattenimento. 

raffaella cortese

 Attualmente, dopo il periodo pandemico, si percepisce un’ulteriore nostalgia della bellezza, che sembra contrapporsi spesso col concetto di arte, e ci rimanda ad un’arte piuttosto del passato dei grandi maestri. Si ha ancora bisogno di “Maestri”? La pittura, sovente dichiarata “morta” è resuscitata, reinventata, atavica nostalgia?  C’è una messa a morte del dipinto?

 Da sempre nel corso della mia attività sono stata accompagnata dalla ricerca della bellezza. Ricordo quando addirittura la parola “bellezza” era in qualche modo proibita, troppo antiquata. Io, ancora oggi, continuo a credere fortemente nella bellezza perché penso sia uno dei grandi valori della storia dell’uomo e dell’arte. La ritrovo tanto nella pittura, uno strumento espressivo così vivo da sempre, quanto nelle installazioni, nelle opere video e in tante altre forme d’arte. Ho avuto degli amori che erano pittori, ma non sono arrivata al momento giusto e quindi ho perso alcune opportunità di incontro. Oggi sono però molto felice di aver iniziato a collaborare con Edi Hila, grande artista albanese che ha dipinto una vita per necessità, urgenza etica che si traduce in una pittura mentale, concettuale e allo stesso tempo figurativa, vicina alla fotografia e all’architettura. L’incontro con questo artista è stato di grandissima intensità e mi ha riportato nella direzione di certi valori come la spiritualità dell’arte, un termine forse anche questo desueto ma ancora pieno di senso e che ritrovo spesso nell’attenzione di tanti artisti con cui lavoro. Lui per me è un maestro e la pittura è più viva che mai. 

L’arte come ambasciatrice e unione dei popoli?  E’ importante relazionare la nostra cultura con altri mondi? Quanto conta, soprattutto per chi come lei ha scelto una professione certo non facile di divulgare un genere d’arte contemporaneo, avere una visione cosmopolita?

 Penso che oggi sia impossibile non relazionare la nostra cultura con altri mondi. Siamo sempre iper connessi e, anche per quanto riguarda la mia storia, c’è sempre stato un intreccio tra la cultura nazionale e quella internazionale, specialmente americana. Ho inaugurato la galleria nel 1995 proprio con una mostra di Franco Vimercati, uno dei più importanti fotografi concettuali italiani, per poi subito proseguire con le artiste americane Roni Horn nel 1997, Barbara Bloom nel 1998 e Jessica Stockholder nel 2000. E poi ci sono stati artisti di provenienza diversa, non solo europei, ma anche coreani, iraniani, israeliani, svizzeri. 

 L’attitudine di collezionare, scovare e sperimentare nuovi linguaggi è una sua prerogativa? Non crede che oggi il linguaggio dell’arte sia in crisi per una overdose di provocazioni diventate parte essenziale dell’esperienza creativa? Prevale una spettacolarizzazione dell’arte?

 Viviamo in un momento di grande evoluzione in cui è impossibile non creare sinergie, dove si vede sempre di più e si studia sempre di meno, ma credo che l’arte vada anche cercata, scoperta e approfondita. Credo moltissimo nell’istinto, che percepisco come una forma di intelligenza che va educata attraverso una sovrapposizione di esperienze. L’arte è anche crescita intellettuale: necessita di una visione critica e storica, specialmente nel momento attuale in cui c’è il grande pericolo della spettacolarizzazione dell’arte che, come dicevo prima, è ormai diventata quasi un mero passatempo. Oggi l’effimero prevale e si moltiplicano le mostre temporanee ad alto budget rispetto alla costituzione di musei del contemporaneo e, quindi, la costruzione di un bene collettivo durevole.

Anche l’attitudine a collezionare oggi ha cambiato molto il suo significato. È più difficile trovare dei collezionisti nel senso tradizionale, qualcuno che sia appassionato e che voglia pensare a una sua idea di collezione, ad accogliere degli artisti e i valori che questi trasmettono: per farlo occorre mettersi in discussione e intraprendere un viaggio che è anche e soprattutto interiore. È poi vero che ci sono sempre più persone che si accostano all’arte e penso sia importante che proprio questi abbiano gli strumenti per farlo e per poter crescere – il giornalismo d’arte, cartaceo, televisivo e online, ha un’importante funzione in questo senso. 

Di fondamentale importanza è anche vedere le mostre con uno spirito riflessivo, visitare i musei e fare dell’arte una passione vitale. Così collezionare diventa entusiasmante, uno specchio delle tue personalità, delle tue paure e tue gioie, rivelatore di te stesso, della tua epoca, e che forse ti indica anche un po’ la strada verso il futuro. Quindi sì, siamo in un momento in cui convergono l’eredità del collezionismo impegnato, da una parte, e dall’altra un collezionismo improvvisato, quando comunque collezionare, scegliere, dare un giudizio e accogliere un’opera nella propria collezione deve presupporre una tempistica. 

raffaella cortese

 Qual è il focus sulla ricerca e la sperimentazione artistica della sua galleria? Si può ancora parlare di sperimentazione o appare desueto? L’artista in fondo non è un alchimista, è un visionario, ci comunica un’idea, ci traghetta in un sogno.  

 Ho la fortuna di lavorare con grandi performer ma anche con scultori e con video artisti brillanti, quindi con una grandissima varietà di media e senza limiti generazionali, e sono convinta che la sperimentazione artistica sia insita nel contemporaneo, al contrario che desueta. Oggi guardo alla contemporaneità con un atteggiamento allo stesso tempo curioso e riflessivo, senza precludere a priori alcuna forma: proprio questa primavera una delle nostre artiste, Yael Bartana, sarà fra i protagonisti della nascente piattaforma Artworld dedicata agli NFT che, lo sappiamo, possono assumere le sembianze di qualsiasi file digitale – video, foto, audio, grafica.

 So che lei predilige rapportarsi con le artiste donne, e questo a mio avviso fa la differenza, e sfata il mito dell’artista rivolto spesso verso il “mondo umano maschile” come lo denominava Carla Lonzi, colei che ideò le prime interviste agli artisti. Ci vuole parlare del suo rapporto con le artiste?  Oggi per fortuna la donna si è affermata in ogni campo, soprattutto nell’arte, basti pensare Marina Abramovic, Jenny Saville, Yayoi Kusama… 

 La galleria ha certamente un gruppo di donne molto consistente poiché ho sempre trovato molto naturale avvicinarmi al femminile e dare voce alle artiste che per secoli non hanno potuto esprimersi in libertà. In particolare, mi interessa esplorare la sensibilità femminile nelle sue infinite diversificazioni. Penso, per esempio, a Silvia Bächli che ha sondato le possibilità espressive della linea in composizioni essenziali e poetiche; a Helen Mirra e Allyson Strafella il cui lavoro, elegante e minimale, nasce dalla meditazione e dall’intimo rapporto con la natura; a Yael Bartana e Martha Rosler, impegnate da un punto di vista socio-politico in maniera più manifesta; alla vulcanica Monica Bonvicini, di cui abbiamo appena inaugurato la terza personale in galleria, che da sempre indaga il rapporto tra architettura, potere, genere e sessualità, spazio, sorveglianza e controllo. Monica ha spesso riflettuto sull’ambiente domestico come rifugio e, allo stesso tempo, trappola per la donna, argomento quanto mai attuale se pensiamo alle violenze che sono aumentate in modo esponenziale durante la pandemia e che sono un enorme orrore della guerra. È importante ricordare che questa guerra è combattuta all’insegna di valori tradizionali, patriarcali, che inaspriscono la disuguaglianza di genere e ristabiliscono vecchie divisioni: da una parte le donne diventano migranti insieme ai bambini e agli anziani, dall’altra ci sono gli uomini al fronte. In questo particolare momento dobbiamo affrontare problematiche che pensavamo di aver superato ed io mi sento, insieme alle mie artiste e ai miei artisti, fortemente ancorata al drammatico presente: la sera leggo poesie come preghiere.

 Lei in una recente intervista, ha affermato che c’è una certa “stanchezza d’immagini” dovuta ad un massiccio uso dei social in fase pandemica, quando per ovvie ragioni si interloquiva per lo più al telefono o in video-chiamata, ci si rapportava in maniera insolita quasi ossessiva. Ha evidenziato, a tale proposito, una collaborazione in un suo mirabolante progetto con Marcello Maloberti, con inedite stanze vuote per una “mostra” “invisibile” ma auditiva, mi ricorda le stanze vuote di De Dominicis e le sue fragorose risate echeggiare nella stanza. Un ritorno “all’invisibile”? Bisogno di “urlare” il silenzio sottraendone l’immagine tanto cara alla fruizione?

 Sicuramente la pandemia ha fatto emergere questa stanchezza, sentita sia dagli artisti sia dai collezionisti. Così nel 2020 abbiamo realizzato “L’Orecchio di Dioniso”, più che una mostra un gesto concreto nato dal desiderio di sacrificare la vista a favore dell’ascolto. Attraverso tre lavori sonori, di MiroslawBalka, Simone Forti e Marcello Maloberti, abbiamo voluto creare la “visibilità dell’invisibile”, una presenza diversa in mezzo alla crescente proliferazione di immagini, lasciando gli spazi della galleria completamente vuoti. 

Marcello Maloberti in questa occasione ha mostrato un’installazione sonora che descrive a parole un affresco di Lorenzo Lotto e invita, letteralmente, a immaginarlo. Con la forza della voce, capace di evocare tanta bellezza e meraviglia, Marcello è tornato il mese scorso in Triennale, a Milano, esponendo una selezione di Martellate – poesie che nascono da “innamoramenti quotidiani”, come dice lui stesso – meravigliosamente recitate da Lydia Mancinelli, la musa di Carmelo Bene. 

 A suo avviso, c’è una differenza sostanziale tra l’arte fatta da donne e quella espletata dagli uomini? Noi donne forse siamo più pratiche e materne, agiamo su diversi fronti, più pervasivi e tenaci, passionarie. Ci vuole parlare delle sue artiste? C’è un aneddoto particolare che ricorda con simpatia?

 Ho sempre scelto innanzitutto il lavoro, mai il genere, perché da un punto di vista qualitativo non c’è alcuna differenza assoluta fra l’arte degli uomini e quella delle donne. Esistono artiste e artisti geniali, ma la storia dell’arte ha iniziato a riconoscere i capolavori femminili solo in seguito poiché le donne sono state a lungo escluse dal mondo del lavoro, non solo artistico. Questa premessa è per me imprescindibile, ma riconosco anche che, in quanto donna, mi sono spesso sentita vicina all’opera di artiste nonché di poetesse e scrittrici ritrovandovi delle caratteristiche specifiche che sento, naturalmente, affini: forza morale ed emotività, sensibilità e determinazione, introspezione e ribellione. 

 Qual è oggi il ruolo di un gallerista rispetto al passato? Più mobilità, partecipazione a rassegne e fiere d’arte sono fondamentali per scambi internazionali e culturali?

 Oggi il ruolo di un gallerista prevede un’attività estremamente dinamica e maggiori scambi internazionali rispetto al passato, ma io sono un po’ radicale in questo momento. La pandemia per me è stata un’esperienza molto intensa e mi ha fatto riflettere molto sulle modalità di lavoro. Oggi sono più selettiva e scelgo di fare le cose che davvero meritano di essere fatte, perché mi sono accorta di quanto sia necessario rimanere concentrati per costruire rapporti sempre più intensi e di dialoghi arricchenti. Sento in questo momento un bisogno di selezionare e un bisogno di maggiore verità, anche nello stare con le persone per avere momenti di spessore.  

 Quest’anno Art Basel, una fra le Fiere d’arte più prestigiose e importanti al mondo, la vedrà partecipe con la sua galleria. Cosa si aspetta, o meglio si auspica , dopo il difficile periodo pandemico e i vari rimandi. Vuole svelare i nomi degli artisti partecipanti con la sua galleria?

 Anche quest’anno la nostra partecipazione a Basilea sarà molto precisa, dedicata all’opera di artiste di generazioni e linguaggi diversi, e avremo anche due importanti presenze femminili ad Art Unlimited. Non posso anticipare i nomi, ma ci tengo a dichiarare le intenzioni: c’è ancora moltissimo lavoro da fare sull’arte femminile. Oggi i nomi femminili sono senza dubbio in aumento nell’arte, se paragonati al passato, ma i numeri dimostrano che le donne, salvo rare eccezioni, continuano a essere sottovalutate sul mercato rispetto ai colleghi e non sono altrettanto presenti nelle collezioni, pubbliche e private. Da sempre, con dedizione, ho voluto dare visibilità e spazio alle artiste e anche le fiere, insieme alla galleria e alle istituzioni, sono luoghi in cui lavorare anche in questo senso. 

 Per lei cos’è più importante, l’arte o l’amore?

 L’arte o l’amore… è essenziale l’amore per mio marito, è essenziale l’amore per l’arte. Senza di loro probabilmente non potrei vivere. Sono importanti anche quelli che definisco i miei compagni di viaggio: gli amici, con loro stare insieme è autentico piacere. Alcuni sono artisti, altri collezionisti molto speciali e curatori straordinariamente intelligenti, per non dimenticare i collaboratori che condividono con me, ogni giorno, soddisfazioni e difficoltà. Sono gli incontri, anche i più semplici, ciascuno con un’intensità differente, a delineare il mio quotidiano universo affettivo che trova nell’arte il suo filo rosso. 

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