Mandalay, la città dorata

testo e foto di Paola Vignati – www.paolavignati.com

Il nome di questa città situata nell’arida e piatta piana della Birmania centrale, evoca atmosfere avventurose ed esotiche. Molto si deve alla celebre poesia di Klipling On Road to Mandalay. Lo scrittore inglese non la visitò mai, ciononostante la poesia celebra la nostalgia di paesaggi tropicali, di un altrove lontano, di un luogo idealizzato. Oggi Mandalay è una città moderna che arriva a quasi un milione di abitanti, la seconda del Myanmar (altro nome della Birmania) per popolazione e importanza. Caotica, trafficata, non affascina al primo sguardo, ma è la capitale culturale, religiosa e artistica del Paese. Nelle sue paya (pagode) e nei monasteri si ritrova il sapore di un passato antico e glorioso, ammantato di un misticismo ancora molto evidente nei gesti dei birmani.

Le pagode di Mandalay. Kuthodaw Paya è uno dei luoghi più d’impatto della città. 729 “stupa” bianchi contengono il più grande libro del mondo, inciso su stele in marmo. Le oltre settecento stele riportano il Tripitaka, il canone buddhista. Si racconta che, una volta terminata la pagoda, più di duemila monaci si diedero il cambio, per sei mesi, senza interruzioni, per recitare l’intero canone inciso nella pietra. Gli stupa si raccolgono attorno allo stupa centrale dorato della metà del XIX secolo.

La Sandamuni Paya si trova vicino alla Kuthodaw Paya e continua la tradizione delle lastre di marmo. Qui, incisi, ci sono i commenti, in lingua pali, al canone buddhista. Ogni singola stele occupa uno stupa, proprio come alla Kuthodaw Paya. La pagoda di Mahamuni, il santuario più sacro di Mandalay, è il secondo di tutto il Paese, dopo la pagoda di Shwedagon di Yangon. La grande venerazione si deve ai poteri soprannaturali attributi all’enorme Buddha al suo interno. Quotidianamente, decine di uomini, appongono sottili foglie d’oro sulla statua, con la speranza che le loro suppliche  vengano esaudite. Questa pratica ha modificato l’aspetto del Buddha che appare enorme, per l’applicazione continua dell’oro, su tutto il corpo, tranne il volto. Le donne non sono ammesse e possono vedere il rito attraverso degli schermi. In una teca della pagoda Mahamuni sono esposti i famosi Dvarapala, guerrieri guardiani (con tre leoni e un elefante a tre teste), che un tempo vegliavano sul tempio di Angkor Wat in Cambogia. La loro storia racconta di guerre e furti tra i regni vicini. Il re del Siam, li ruba ai cambogiani nel 1431. Nel 1564 il re birmano sottrae al Siam, circa trenta guerrieri in bronzo. I tre esposti alla pagoda sono gli unici sopravvissuti; i restanti ventisette vennero fusi nel 1784 su ordine del re Thibaw per creare cannoni da utilizzare contro l’invasione inglese.

La pagoda Kyauktawgi Paya custodisce invece un Buddha alto otto metri del peso di novecento tonnellate. Si narra che ci siano voluti diecimila uomini per trasportare la statua, scolpita in unico blocco di marmo.

I monasteri di Mandalay. Quelli più antichi della città sono realizzati in teak, una delle tante risorse naturali del Paese, come rubini, gas naturale e petrolio. Le strutture dei monasteri, costruiti senza l’ausilio di mezzi meccanici, sono pressoché uguali, enormi tronchi sostengono la base e li isolano da terra; le assi del pavimento sono inchiodate e le decorazioni, che raccontano episodi del canone buddhista, sono finemente intagliate da esperti artigiani. I monasteri in Myanmar giocano un ruolo importante nell’istruzione: la formazione scolastica, non solo religiosa, dei bambini delle classi meno abbienti viene da sempre affidata ai monaci. Shwenandaw Kyaung o Goldel Place è un magnifico monastero buddhista costruito interamente in teak. Inizialmente all’interno del Palazzo Reale e poi spostato. La storia di questo spostamento è la storia della sua salvezza. Nel 1878, alla morte del re Mindon, il figlio fa trasportare lo Shwenandaw al di fuori della cinta muraria del palazzo, per allontanare gli influssi negativi. Il palazzo Reale di Mandalay viene raso al suolo durante la seconda guerra mondiale e il monastero è l’unica testimonianza originale dei fasti della corte birmana. Dopo la fine della guerra il re dona il monastero alla comunità monastica di Mandalay.

Altro esempio di struttura in teak è Shwe In Bin Kyaung; questo monastero, ancora in attività, è abitato da una comunità monastica e al suo interno si trova anche una scuola.

Mandalay Palace è una ricostruzione dell’originale del 1857, andato distrutto in un incendio durante i combattimenti tra giapponesi e inglesi nella seconda guerra mondiale.

Nel 1885, gli inglesi occupano l’alta Birmania, il re viene esiliato in India e il palazzo diventa  Fort Dufferin, una base militare britannica. Il complesso è molto vasto, composto da padiglioni e ampi giardini, ma gli stranieri possono accedere solo al palazzo vero e proprio, che si trova al centro. I terreni tutto attorno, utilizzati dalla giunta militare come basi, continuano ad essere un’area di massima sicurezza, presidiata dai militari. Durante la dittatura militare, i turisti, per cinque dollari, potevano accedere al palazzo di Mandalay, lasciando il passaporto  in consegna all’ingresso. Oggi in Myanmar la dittatura è finita, ma la modalità di accesso al palazzo sono rimaste le stesse. Questo è stato l’unico luogo in Myanmar in cui non mi sono sentita libera, in cui ancora si avvertono gli echi del regime. Attorno alle possenti mura del palazzo di Mandalay c’è un fossato largo settanta metri e profondo più di tre che, soprattutto al tramonto, diviene un luogo affascinante: il sole regala colori dorati alle sue acque e sfumature intense alle mura di mattoni. All’epoca del regime, i birmani furono obbligati al lavoro coatto di pulizia e dragaggio dello specchio d’acqua per renderlo attrattivo ai potenziali turisti.

Il quartiere degli orafi. Le sottili lamine in foglia d’oro, della grandezza di pochi centimetri e dello spessore di qualche millimetro,  che vengono applicate sulle statue del Buddha nelle pagode, sono prodotte a mano nel quartiere degli orafi. Qui  è possibile vedere al lavoro i muscolosi operai che, a forza di battere l’oro con pesanti martelli e una notevole maestria, lo trasformano in lamine. Un’altra esperienza molto interessante da fare in questa città è la visita al mercato della giada: si pagano pochi dollari per l’ingresso, ma una volta entrati si è catapultati in un altro mondo. Una folla di compratori, in costante movimento, è alla ricerca della preziosa pietra sia in piccole quantità che in blocchi. Un’usanza di non immediata comprensione per un occidentale è quella, qui molto diffusa, di sputare il betel in enormi bidoni delle piccole viuzze; il betel è un composto di tabacco e noce di betel appunto, cioè una pianta dal colore rosso intenso. Nota per gli effetti energizzanti e di contrasto alla fame. Molto consumata in Myanmar, sia dagli uomini che dalle donne. I consumatori di betel si riconoscono dai denti macchiati di rosso e dalla bocca che sembra sanguinare. Masticare betel fa produrre molta saliva, quindi i consumatori sono costretti a sputare di frequente e al mercato della giada sono attrezzati per questa necessità tutta birmana.

Le sale da tè. Il tè in Myanmar è bevanda nazionale e le sale da tè sono luoghi di ritrovo, in cui è possibile anche gustare i piatti tipici. Mandalay vanta le sale da tè più importanti del Paese. Fermarsi a bere una tazza di tè è un obbligo per ogni viaggiatore. Qui il tempo scorre lento, ci si rilassa e spesso si condivide il tavolo con altri clienti. Proprio mentre mi trovavo in una sala da tè, nei pressi del mercato della giada, ho avuto modo di assistere alla vendita della pietra, in un‘atmosfera più rilassata rispetto al frenetico mercato.

Mandalay Hill è la collina che, con i suoi 230 metri di altezza, domina la città e regala una vista unica sulla pianura verdeggiante. Ci sono vari modi per raggiungere la collina: a piedi, dalle scalinate che la circondano, prendendo un bus collettivo oppure un tuk tuk. In cima alla collina si trova la pagoda Su Taung Pyi.

Pochi chilometri fuori Mandalay si trova il ponte simbolo del Myanmar:  l’U Bein Bridge, con i suoi 1200 metri  di lunghezza, è il ponte pedonale in teak più lungo del mondo. Si regge su 1068 pali, anch’essi in legno. Le acque del lago Taungthaman sono poco profonde e, specialmente nella stagione secca, lo fanno apparire molto alto. Un altro simbolo di questa incredibile città asiatica.

 

 

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