*di Giovanni Laganà*
E’ una storia – la nostra – che nasce in Sicilia, nell’estate del 1942, in una cornice da sogno: quella del mare di Isola delle Femmine, borgo marinaro situato a pochi chilometri da Palermo. Nel bel mezzo di una guerra mondiale senza precedenti, in una giornata particolarmente assolata, un’inusuale risonanza di motori rompe il silenzio e la monotonia di quel caldo pomeriggio. Dal mare, una flotta di Junkers 52, in perfetta formazione ed a bassa quota, si dirige verso il vecchio campo di aviazione di Boccadifalco attirando l’attenzione di Michele e Carlo Reina che, in quel momento, erano intenti a giocare sul terrazzo della loro casa. Uno degli aeromobili stentava tuttavia a tenere l’assetto degli altri viaggiando ad un’altezza inferiore mentre i suoi motori emettevano rumori irregolari, interrotti da fragorosi scoppiettii e pericolosi vuoti di potenza. I due ragazzini percepiscono che quello che stava accadendo non era usuale e salgono sul tetto per capire meglio che cosa in realtà stesse per succedere.
L’aereo, virando improvvisamente, si abbassa ulteriormente di quota e sfiora le loro teste obbligandoli a diventare un tutt’uno con le tegole. Michele e Carlo hanno però il tempo di imprimere nella loro mente la scocca inferiore dipinta di giallo, le croci nere bordate di bianco sotto le ali e la croce uncinata sul timone di coda. L’aereo continua nella sua strana traiettoria dirigendosi verso il mare e, dopo aver attraversato quasi tutta la rada di Sferracavallo, impatta inevitabilmente con la superficie dell’acqua fermando la sua folle corsa. Di lì a poco, uno dei motori inizia inesorabilmente ad inabissarsi mentre gli uomini dell’equipaggio riescono a lanciarsi dal portellone. Dal porticciolo del borgo, in men che non si dica, i pescatori, con le loro barche a remi, raggiungono i naufraghi mentre i due ragazzi corrono all’impazzata verso il mare quando già i militari tedeschi erano stati portati in salvo e condotti a Palermo. Di loro non si è saputo più nulla.
Da quel momento “Tante Ju”, ovvero “Zia Ju”, come lo chiamavano simpaticamente sia i tedeschi che gli alleati, giace sul fondo del mare a circa 46 m di profondità ed è fra i relitti più ricercati dall’intera comunità subacquea per la inusuale colonizzazione delle sue strutture e l’incredibile fauna che riesce ad ospitare. Trimotore prodotto sin dagli anni Trenta, lo Junkers 52 fu utilizzato dapprima per scopi civili e, successivamente, come aereo da trasporto e come bombardiere. Non particolarmente eccellente per stile di linea e di aerodinamicità era piuttosto goffo ed un po’ spigoloso ma robusto e affidabile in volo. La scoperta del relitto si deve ai ragazzi del Gruppo Tecnomare di Palermo i quali, alla fine anni ’80, avvalendosi delle conoscenze e dei suggerimenti di un esperto pescatore locale, lo individuano riportando in superficie i primi reperti fotografici in bianco e nero.
Più volte ho pensato di programmare qualche tuffo che mi avrebbe consentito di ammirarlo nei suoi unici ed inconfondibili particolari ed ero consapevole che, per vivere appieno il fascino di un relitto carico di vita come lo Junkers, fosse fondamentale “incontrarlo” immergendosi ed osservandolo con l’ausilio imprescindibile di fotocamera e fish – eye montati sulla mia custodia. Per tale obiettivo non è stato difficile incrociare la professionalità del Diving Center Saracen di Tony ed Alberto Scontrino, eccellenza italiana nel campo della subacquea. Di loro, nel corso della mia permanenza ad Isola delle Femmine, mi ha colpito il garbo, la cordialità, la location, la precisione e la cura di ogni particolare, non tralasciando i momenti di relax puro che, sempre all’interno della struttura, Laura tiene sempre in serbo senza mai risparmiarsi.
Sveglia presto la mattina del 24 aprile e primo occhio al miglio di distanza che separa il porticciolo da “Zia Ju” per avere la conferma delle condizioni meteo riportate dallo smartphone: anche de visu eccellenti. A Filippo e Vittorio, guide ed esperti subacquei tecnici che ci accompagneranno in immersione, affido, durante il briefing, la mia confessione di voler scrivere su Med e che, per questo, avrei avuto bisogno di indicazioni precise circa i punti da attenzionare particolarmente senza doverci tornare necessariamente una seconda volta. Filippo sorride e mi dice in un inconfondibile accento palermitano: “Capito! Vuoi pure la targhetta dei motori? Allora stammi attaccato”. Pensavo scherzasse ed invece no…
Pochi minuti di navigazione in gommone, giusto il tempo di apprezzare il piglio di Alberto che, a modo suo, invitava un improvvisato pescatore della domenica ad allontanarsi da un’area per lui interdetta, che già ci ritroviamo in acqua pronti per la discesa. “Visibilità eccellente ed assenza di corrente” esclama Vittorio. “Giovanni, soffermarti a fotografare e non preoccuparti. Abbiamo scorta d’aria sufficiente”. Durante la discesa, il relitto si scorge, nella sua interezza, già alla quota dei 30 mt. È capovolto e non in assetto di navigazione. Probabilmente, durante l’ammaraggio, il peso di uno dei motori lo ha sbilanciato facendolo ruotare durante l’inabissamento. La fusoliera, la coda e la cabina di pilotaggio sono sepolte sotto la sabbia. Le ali e soprattutto i due motori sono completamente integri: sono loro l’attrazione più grande.
Su quello di destra, l’elica appare completamente illesa. Segno che al momento dell’ammaraggio il suo motore doveva essere ormai fuori uso: probabilmente era quello il motore in avaria. Proprio da quel punto inizia il mio approccio fotografico durante il quale pensavo a quanto fosse difficile immaginare come un immenso corpo estraneo sia stato “adottato” dal mare e trasformato in un’oasi in cui la diversità biologica lascia stupefatti gli osservatori attenti. A prua è visibile la scaletta di accesso alla fusoliera: è l’unico particolare che fa intravedere l’aereo al suo interno. La fotocamera diventa l’unica “arma” in mio possesso, con la quale tento di riportare in superficie le claveline che aderiscono al ferro del relitto, le spugne colorate a guisa di cannule protese verso l’alto, gli sciami di castagnole e di anthias che arricchiscono le cornici e ne diventano parte essenziale.
Prima della risalita, uno scatto al volo a Beniamino, il grongo guardiano del relitto. Egli, in compagnia della sua amica murena, attende con pazienza e senza più paura di essere lasciato in pace. Come nelle ore a venire, anche mentre scrivo, ho in mente lo Junkers 52 il quale, nonostante la vicissitudine di un evento imprevedibile causa del suo inabissamento, non avrebbe fatto parlare probabilmente di sé qualora il Mare non lo avesse accolto nel suo grembo e reso parte integrante del mondo sommerso, ridonandogli orgoglio ed ergendolo, nel contempo, a simbolo di una Natura che, pur in sofferenza, non finisce mai di stupire.