*di Carlo Piano*
La Tomba Brion è la storia di un amore scritta con acqua, aria e cemento armato. Quando Onorina Tomasin chiese a Carlo Scarpa di creare il mausoleo per ricordare il marito Giuseppe Brion, improvvisamente scomparso, lui accettò a una condizione: doveva avere la parola della vedova che non si sarebbe mai risposata. Lei lo giurò, anche perché Giuseppe era stato e sarebbe rimasto l’unico amore della sua vita. Correva allora l’anno 1969 quando l’uomo fece il primo passo sulla Luna.
Insieme Onorina e Giuseppe avevano avuto due figli, Ennio e Donatella. Insieme fondarono la Brionvega che inaugurò l’epoca d’oro del design con icone come la Radio Cubo e il televisore portatile Doney, oggi esposte al Moma di New York. Coinvolsero nell’avventura talenti quali Marco Zanuso, Ettore Sottsass, i fratelli Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Mario Bellini e Franco Albini. Insieme, Onorina e Giuseppe, partendo dal nulla divennero celebri e furono felici, finché la morte non decise crudelmente di separarli.
Carlo Scarpa era un uomo eclettico e geniale: pittore, illusionista, artigiano, architetto per laurea ad honorem e artista a tutto tondo. Soprattutto un poeta del costruire con il cemento armato, il materiale che prediligeva per le sue creazioni. Il luogo che Onorina scelse per la tomba era il paese natale del marito, un angolino di paradiso dove la verdeggiante campagna veneta sfuma inerpicandosi sulle pendici delle Alpi bellunesi. Giungendo al minuscolo cimitero di San Vito, frazione di Altivole in provincia di Treviso, si coglie nell’aria qualcosa di magico. Soprannaturale forse. Un misto di commemorazione, silenzio e profonda riflessione ammanta lo spazio. Come se oltrepassassimo il confine indecifrabile tra il mondo dei viventi e quello popolato dagli spiriti che ci hanno preceduto.
Il camposanto di San Vito, smarrito nella bellezza della Marca, è meta di migliaia di visitatori. Davanti al cancello si assiepano crocchi di studenti, di ogni sfumatura della pelle e che parlano le lingue più disparate, intenti a scattare fotografie non con i telefonini ma impugnando macchine a pellicola. Gli artisti schizzano disegni sui loro blocchi e i professori illustrano alle scolaresche la bellezza arcana, che emana da questo complesso monumentale di arte funeraria. Qualcuno qui viene per pregare nella quiete del padiglione di meditazione, isolato da una vasca d’acqua, cesura necessaria per prendere le distanze dalle turbe della vita quotidiana. Anche Brad Pitt, ospite d’onore alla Biennale del cinema di Venezia, ha voluto visitare la Tomba Brion e anche lui è rimasto stregato dal «senso di pace» e dall’atmosfera di sospensione incantata. Sensazioni difficilmente assaporabili sui mondani boulevard di Hollywood.
Il viaggio nei meandri della spiritualità inizia salendo uno stretto viale che conduce a un pino piangente e qui, tra il cimitero paesano e la cappella Brion, si inframezza un passaggio, reale e simbolico: grandi aperture di forma circolare e intrecciate, come fossero fedi nuziali. Un inno al vero amore che si compie prima nella conoscenza e poi nell’unione simbiotica con l’altro.
La luce gioca con la superficie grigia del cemento e rimbalza sul laghetto rendendo il capolavoro di Scarpa sorprendente e sempre diverso, a seconda dei capricci del tempo. Si tinge di sfumature arancioni durante la lunga agonia del tramonto, mentre toni di azzurro dominano nelle giornate di bruma e pioggia. Si scoprono a ogni passo prospettive e volumi inattesi. La barriera in cristallo, che si alza attraverso un meccanismo che la fa emergere dall’acqua, accoglie in un percorso catartico che trova il suo apice nel giardino zen, un isolotto circondato dalle ninfee che richiamano alla memoria gli stagni di Claude Monet, con al centro il padiglione dedicato al raccoglimento. Qui si riassumono, in una superba sintesi, influenze contemporanee, come il modernismo di Frank Lloyd Wright e Le Corbusier, e le passioni orientali di Scarpa. C’è soprattutto il Giappone con la sua quieta leggerezza.
L’arcosolium, ponte in cemento e bronzo che simboleggia il passaggio tra la vita e la morte, si ispira alle sepolture degli antichi cristiani: è decorato da mosaici policromi d’impronta bizantina e al suo interno sono collocati i sarcofagi dei coniugi, ricavati da un unico blocco di marmo. Si tendono uno verso l’altro, per salutarsi anche nell’aldilà e i loro nomi, intarsiati di ebano e avorio, sono stati disegnati personalmente dal progettista veneziano.
Nel 1978 il maestro morì prima di terminare l’opera, in seguito ad una caduta dalle scale a Sendai in Giappone. Così la Tomba Brion venne ultimata seguendo fedelmente i suoi disegni. Un destino che rende ancora più intima e intensa la visita al complesso funerario che Scarpa indicò nel testamento come suo personale luogo di sepoltura. Riposa nel punto di congiunzione tra il monumento e il vecchio cimitero comunale.
Proseguendo, si giunge alla copertura piramidale che ospita le tombe dei parenti dove la fessura sul tetto, secondo il rituale religioso, permette l’ascensione delle anime trapassate al cielo. Segue la meravigliosa cappella che sembra una stanza del tè giapponese. Qui è indiscussa protagonista la luce, studiata in ogni dettaglio grazie a scanalature e feritoie che creano illusioni ottiche ed effetti scenici come il riverbero dell’acqua sul soffitto.
Il capolavoro è stato appena restaurato su commissione di Ennio Brion. I lavori si sono conclusi un anno fa, dopo gli interventi sul cassone di larice, sull’armatura, che in certi punti presentava affioramenti dal calcestruzzo, sugli intonaci e sui mosaici del tempietto. Il mausoleo è visitabile negli orari di apertura del cimitero: dalle otto alle diciotto. Una bussola per interpretarne il fascino misterioso è racchiusa nelle parole di Scarpa stesso. Dicono che solo l’amore e la natura possono sconfiggere la paura della morte: «Se vuoi essere felice per un’ora, ubriacati. Se vuoi essere felice per tre giorni, sposati. Se vuoi essere felice per una settimana, uccidi un maiale e dai un banchetto. Se vuoi essere felice per tutta la vita, fatti un giardino».