di Eliana Iorfrida*
Ad ottant’anni dalla morte di Fitzgerald, voce narrante innovativa e amatissima dell’età del jazz, rileggere la sua opera è ancora un’esperienza ricca di fascino e scoperte
“Chi vi ha portato qui? Siete semplicemente venuti? Io sono stato portato. Quasi tutti sono stati portati qui”. Il nostro interlocutore ha ragione, anche noi “siamo stati portati” nella rutilante realtà di Mr. Jay Gatsby; la dimensione parallela del bel vivere che si specchia con alterigia sulle acque di Long Island, New York. Siamo dei veri e propri imbucati, dobbiamo ammetterlo! È stata la penna cult di Francis Scott Fitzgerald a introdurci senza invito alla festa del secolo – anni ‘20 del Novecento – affidandoci alle cure del buon Nick Carraway, voce narrante, nonché vicino di casa del nostro ospite.
La New York del proibizionismo come la Roma dello scandalo; Jay come Jep, antieroi che si stagliano sul clamore di un mondo vuoto, patinato, sull’orlo del baratro
Mi correggo, definire casa la tenuta di Gatsby è riduttivo, quasi offensivo: varcata la soglia di ingresso al parco, la “rassicurante prossimità di gente milionaria”, per usare le parole dello stesso Nick, prende forma in un monumentale palazzo che ricalca un Hôtel de Ville della Normandia, con tanto di torre, piscina di marmo ed ettari di giardino. Storditi da tanta colossale ricchezza, quasi non ci accorgiamo del cocktail che ci viene servito, né della vacua mondanità nella quale ci troviamo immersi.
Decine e decine sono state le edizioni del libro di Francis Scott Fitzgerald
“Nelle notti estive giungeva la musica […]. Nei suoi giardini azzurri uomini e donne andavano e venivano come falene fra bisbigli e champagne e stelle. Durante l’alta marea del pomeriggio guardavo i suoi ospiti tuffarsi dal trampolino, o prendere il sole sulla sabbia calda della spiaggia privata, mentre i suoi due motoscafi fendevano le acque dello stretto, rimorchiando acquaplani tra cascate di spuma […]”.
Poi, in cima alle scale appare lui. Il suo sguardo si posa con distacco sulla calca sovreccitata, alla quale concede tutto senza concedere mai se stesso.
Chi è davvero Jay Gatsby? Si dice… si vocifera… si suppone, ma non si sa. Nessuno conosce il suo mistero, l’abisso nero che quest’uomo distinto, forbito fino all’ossessione, nasconde con cura sotto drappi setosi, note d’orchestra, coppe di champagne, attimi di baldoria, stravizi e risa sguaiate. Nessuno, a eccezione di Nick Carraway, che per un bizzarro gioco del destino è imparentato con l’unico oggetto del desiderio interdetto a colui che possiede tutto: Daisy, alias l’Amore.
La locandina del film Il Grande Gastby
Bambola ammiccante e disperata, Daisy è un cappio al collo, una spada di Damocle. Lei, che lo respinse per la miseria da cui proveniva, è motore e fine ultimo della stessa ascesa che, negli anni, ha trasformato l’anonimo Jay nel grande Gatsby. Un prestigio che tuttavia non è valso a strapparla al possesso del perfido e ricco marito. Daisy, ennesima chimera destinata a dissolversi, è il desiderio dei desideri, l’emblema di un mondo che tutto può comprare eccetto la felicità.
Ormai ci siamo dentro! Passiamo anche noi da una festa all’altra, da una sbronza all’altra, consumando le notti fino all’alba, esattamente come un’intera epoca si appresta a consumare il proprio splendore per tramutarlo in un ineluttabile disfacimento: i “ruggenti” anni Venti si fanno (st)ruggenti, così come Gatsby si fa vittima dello stesso mondo di cui è artefice e, per un attimo, mettendo a fuoco il suo disincanto, ci sembra di riconoscere i tratti di un personaggio a noi più vicino.
Proviamo a proiettarlo sul grande schermo… No, non è lo sguardo di Leonardo Di Caprio nell’omonimo film tratto dal romanzo, ma quello fatalmente arreso di Jep Gambardella nella Grande bellezza di casa nostra, a firma Sorrentino. La New York del proibizionismo come la Roma dello scandalo; Jay come Jep, antieroi che si stagliano sul clamore di un mondo vuoto, patinato, sull’orlo del baratro, che assecondano col potere conferito loro dal dio denaro. Per entrambi, si agita qualcosa di inarrivabile sullo sfondo. Fiutiamo la tragedia tra le pieghe della sfrenatezza mondana.
Un destino di morte sta per compiersi per Gatsby, che per lui solo è la morte di un sogno d’amore, ma per il mondo che lo circonda è la morte del Sogno Americano.
Un destino che nel corso del romanzo l’autore dispiega a ritmo di jazz, la musica che il suo stesso cognome sembra evocare, quella musica che ama al punto di farne opera letteraria e che lo accompagna nella narrazione di un mondo folgorante e drammatico, di cui egli stesso è parte integrante.
* Scrittrice e archeologa orientalista. Partecipa a missioni di scavo internazionali (Siria, Egitto e Israele), trasformando i diari di viaggio nel fortunato romanzo d’esordio Sette paia di scarpe (Rai Eri, 2014) vincitore del Premio Letterario Nazionale Rai “La Giara”. Altre sue opere, Antar (Vertigo Edizioni, 2018) e La scatola dei ricordi (Formebrevi Edizioni, 2018). Il figlio del mare (Pellegrini Editore, 2020) è il suo ultimo romanzo.