di Mario Costantino Triolo
Mi sembra doveroso come giovane designer, omaggiare un grande Maestro ormai dimenticato da tutti: l’architetto Gianfranco Ferrè. La sua moda è stata una costante ricerca di un equilibrio che trae dalla ricchezza della tradizione gli stimoli per inventare, innovare, sperimentare. Tutto è un omaggio alle culture diverse riuscendo ad annullare distanze e confini. Sempre legato al mondo dei giovani universitari, già avvezzo a tenere lezioni su moda e design nelle principali università del mondo (Tokyo e New York, solo per citarne alcune), nel mese di marzo del 2007 viene nominato Presidente dell’Accademia di Belle Arti di Brera (Milano). Poco tempo dopo, il 17 giugno 2007, scompare a Milano a causa di un’improvvisa emorragia cerebrale. Dagli esordi negli anni ‘70, arriva in vetta con la nomina a direttore creativo di Christian Dior: era la prima volta per un italiano. Il 1989 fu un anno indimenticabile, impreziosito da una «straordinaria opportunità di crescita e di realizzazione»: a maggio, Bernard Arnault, presidente del gruppo Louis Vuitton Moët Hennessy (LVHM), affidò a Ferré l’incarico di direttore artistico della Maison Dior, ricoperto per trent’anni da Marc Bohan. Fu un vero coup de théâtre, che suscitò una levata di scudi da parte della stampa francese riottosa ad accettare di buon grado la scelta di lasciare la venerabile maison di Monsieur Dior, al n. 30 di Avenue Montaigne, nelle mani di «uno straniero, ed italiano per di più». Il grande debutto, la prima sfilata di ottanta modelli della nuova casa Dior, avvenne il 22 luglio 1989 nei giardini della palazzina della Fondation Salomon Rothschild, al cospetto di novecento invitati, e fu un mirabile trionfo. Parigi e la stampa francese capitolarono e cominciarono ad apprezzare potentemente Ferré e la sua arte, definendolo «una stella», la «furia italiana», «il gigante milanese che riprende la fiaccola Dior».
Tutti lo ricordiamo per la sua eleganza ed educazione, ma anche per il suo capo iconico: la sua camicia bianca. Dai suoi appunti: «È fin troppo facile raccontare la mia camicia bianca. Fin troppo facile dichiarare un amore che si snoda come un filo rosso lungo tutto il mio percorso creativo. Un segno – forse Il Segno – del mio stile, che dichiara una costante ricerca di novità ed un non meno costante amore per la tradizione. Tradizione e novità sono infatti gli elementi da cui prende il via la storia della camicia bianca Ferré. La tradizione, il dato di partenza, è quella della camicia maschile, presenza codificata e immancabile nel guardaroba, che ha fornito uno stimolo incredibile al mio desiderio di inventare, alla mia propensione a rileggere i canoni dell’eleganza e dello stile, giocando tra progetto e fantasia. Letta con glamour e poesia, con libertà e slancio, la compassata e quasi immutabile camicia bianca si è rivelata dotata di mille identità, capace di infinite modulazioni. Sino a divenire, credo, un must della femminilità di oggi […]. Mai uguale a se stessa, eppure inconfondibile nella sua identità, la blusa candida sa essere leggera e fluttuante, impeccabile e severa quando conserva il taglio maschile, sontuosa ed avvolgente come una nuvola, aderente e strizzata come un body. Può essere enfatizzata in alcune sue parti, il collo ed i polsi innanzitutto, oppure ridotta ed intenzionalmente privata di alcune sue parti: la schiena, le spalle, le maniche. Si impreziosisce di pizzi e ricami, è resa sexy dalle trasparenze, oppure incredibilmente ricca ed importante da ruche e volant. Si gonfia e lievita con il movimento, quasi in assenza di gravità. Svetta come una corolla incorniciando il viso. Scolpisce il corpo per trasformarsi in una seconda pelle. Per me la moda è poesia, intuito, fantasia, ma è anche metodo e atteggiamento progettuale che si fonda sulla concezione dell’abito come risultato di un intervento programmato e consapevole sulle forme».