di Rita Ajmone-Cat
L’epica impresa nel racconto della sorella Rita
Il 27 giugno 1969 un piccolo motoveliero di vetusto aspetto mollava gli ormeggi, lasciando il porto di Anzio, alla volta di un continente lontano, ancora un po’ misterioso, e si apprestava a percorrere migliaia di miglia di mare pronto ad affrontare bonacce e tempeste con le eleganti antenne delle sue vele latine, per condurre il Tricolore per la prima volta nella storia, laddove mai era mai arrivato. Nato poco meno di un anno prima, il 10 agosto del 1968, nelle acque di Torre del Greco, il “San Giuseppe Due” fu immatricolato nel registro della Marina Mercantile come Nave Maggiore e non da diporto, malgrado la stazza modesta di 23 tonnellate, poiché aveva i requisiti richiesti a quel tempo per uscire dagli stretti; in tal modo poté rappresentare la propria Bandiera in veste più formale, avendo il Comandante parificato a un Ufficiale di Stato Civile e l’obbligo del Giornale di Bordo. Ideato da Giovanni Ajmone-Cat e progettato insieme con Girolamo Palomba, maestro d’ascia di eccezionale perizia e di acuta intuizione, risultò un capolavoro della cantieristica partenopea che aveva condensato il retaggio della propria arte millenaria in una creazione del tutto inconsueta: per la robustezza della costruzione in legno di quercia e di iroko; per la sagoma dello scafo con un pescaggio di circa tre metri e protetto a prua da una lamiera di acciaio inossidabile; per gli impianti appositi e sperimentali; per l’attrezzatura alquanto anacronistica, realizzata con materiale rigorosamente tradizionale. Il motoveliero si rivelò stabile e sicuro nell’affrontare le veementi depressioni dei mari australi, nel sopportare senza problemi gli urti dei ghiacci, a volte anche piuttosto violenti, rompendone i lastroni fino a un metro di spessore e inoltre si dimostrò un confortevole ricetto per gli uomini dell’equipaggio. Bisogna tenere presente che le spedizioni del “San Giuseppe Due” si svolsero in un periodo per molti aspetti simile all’inizio del 1900 ed ebbero una notevole affinità con i viaggi esplorativi di quell’epoca, anche se usufruirono di maggiori mezzi tecnici, peraltro sovente aleatori e lontanissimi da quelli odierni. Vi erano tante incognite e non si sapeva come avrebbero reagito molti apparati e materiali in quelle condizioni ambientali.
Ritardata da frequenti avarie, la prima spedizione dovette fermarsi sette mesi a Buenos Aires, perché non avrebbe più fatto in tempo ad arrivare in Antartide nella stagione favorevole. La sosta fu proficua per preparare la nave alla parte polare del viaggio e per gli incontri con alcuni membri dell’Istituto Antartico e Idrografico di quella Nazione, che furono utili per avere notizie sulle ultime propaggini argentine e del bianco Sud. Nella sosta alle Isole Falkland, il Capo della British Antarctic Survey fornì dati importanti sulla penisola Antartica, obiettivo del viaggio, e sulla sopravvivenza a quelle latitudini. La navigazione nei canali Fueghini costituì un elemento di conoscenza particolare per le rapide mutazioni meteorologiche, per le precipue correnti, per la conformazione dei luoghi, talora ameni, talora aspri, tanto ricchi di opposti, ove calme e maltempi si alternavano improvvisi. Le traversate dello Stretto di Drake furono sempre parecchio impegnative per le condizioni del mare e per le forti correnti, che contrastavano di continuo la rotta con una deriva difficilmente calcolabile in un’area dove il cielo, quasi costantemente nuvoloso, rendeva arduo il controllo della posizione; problema tra i più ostici del Drake a quel tempo e oggi facilmente risolto dal GPS. Prima tappa antartica fu l’Isola di Deception, una sorta di grande atollo, costituito da vulcani attivi, dove il “San Giuseppe Due” arrivò il 31 dicembre del 1970. Nelle rive continuamente squassate da poderosi sconvolgimenti tellurici si era creata una baia di recentissima formazione e il motoveliero italiano fu il primo ad entrarvi, a farne i rilievi e a dar fondo nel cratere di quel vulcano appena scaturito, che non cessava di trasmettere la sua attività alla catena dell’ancora. I rilevamenti, del tutto inediti per allora, pur effettuati con i soli mezzi a disposizione, furono molto apprezzati dagli scienziati delle Basi operanti nella zona e vennero depositati negli Istituti Antartici delle rispettive nazionalità. Il lavoro idrografico e vulcanologico fu poi completato nel corso della seconda spedizione e risultò che il cratere nel centro della baia si era approfondito di parecchi metri: fu un altro tassello interessante nelle verifiche della continua trasformazione di quell’isola nata da poco. Deception oggi ospita Ajmone-Cat Lake, riconosciuto ufficialmente in tutto il mondo… e mio fratello da lassù gioisce di essere presente nell’amata terra australe, attraverso quel piccolo cratere vulcanico invaso dal mare, che nel frattempo è diventato un lago.
Proseguendo il suo viaggio verso Sud, il “San Giuseppe Due” visitò le basi statunitense,
argentina e britannica che si trovavano sulla propria rotta. Il più piccolo mezzo giunto laggiù nella storia, per svolgere la propria campagna antartica, suscitò ovunque stupore, interesse e ammirazione con la sua presenza del tutto inattesa. Tuttavia nel primo viaggio gli uomini che erano a bordo, stanchi e spaventati di affrontare per la seconda volta la traversata del Drake, sbarcarono alla Base argentina di Almirante Brown, mettendo a rischio l’incolumità della nave, alla fonda nella baia e spesso circondata da grossi iceberg, e anche la riuscita della spedizione stessa. La difficile situazione fu risolta con l’intervento della Marina Militare Italiana che inviò due nocchieri volontari – Franco Zarattini e Salvatore Di Mauro – i quali giunsero a Ushuaia appena in tempo per imbarcare sul rompighiaccio “General San Martin” della Marina Militare Argentina, che effettuava l’ultimo viaggio prima del lungo inverno polare; a loro si unì Dario Trentin, pilota civile e nostro carissimo amico, per affiancare Ajmone-Cat in qualità di Comandante in seconda nell’impegnativo rientro fino alle Isole Falkland. La sostituzione tanto tempestiva di un nuovo equipaggio, carico di entusiasmo e di amor patrio, da parte della Forza Armata conferì un’ufficialità all’impresa e trasformò l’increscioso frangente in un prestigio per l’Italia di fronte a tutte le nazioni che lavoravano in quell’area.
Nella traversata di ritorno il “San Giuseppe Due” ebbe una parziale avaria di motore e si trovò ad affrontare un improvviso ma provvidenziale uragano con un vento di 70 nodi da Sud-Ovest, con tutte le vele a riva; pienamente a proprio agio raggiunse una media di 11 nodi, un record per la sua abituale velocità e riuscì a vincere la poderosa corrente del centro del Drake, che tendeva a trascinare il veliero verso Est e le due vele latine della feluca si presero una onorevole rivincita sui mezzi meccanici della modernità! Da Port Stanley, nelle Falkland, ebbe inizio la lunga traversata per raggiungere l’Isola di Sant’Elena: i 42 giorni di navigazione nelle acque del Sud Atlantico furono tra i più sereni e felici della vita di mio fratello e vennero coronati dal brillante successo dei suoi calcoli astronomici con l’avvistamento dell’isola nell’ora e nel punto preciso previsti, dopo 3.600 miglia percorse a sola vela.
La prima spedizione fu oggetto di numerosi inconvenienti e di frequenti avarie, ma fu assai utile per la verifica di molteplici problemi; Ajmone-Cat fece delle osservazioni particolarmente interessanti e singolari di alcuni fenomeni grazie al tonnellaggio limitato del motoveliero, garantì anche il trasporto di posta tra le isole del Sud Atlantico, ebbe il pregio di instaurare delle relazioni di conoscenza e di reciproca stima con gli Istituti Antartici delle Nazioni presenti in quel territorio e costituì in tal modo un vantaggioso corredo per la preparazione della seconda spedizione. Quest’ultima partì da Torre del Greco nel giugno del 1973 e si avvalse della partecipazione della Marina Militare, che fornì l’equipaggio per la durata del viaggio con quattro sottufficiali volontari. A causa del pack ice molto chiuso il “San Giuseppe Due” non poté proseguire oltre i 65° 15′ Sud. Nel ritorno attraversò il gelido mare di Weddell e per qualche giorno il motoveliero si rivestì di uno spesso strato di ghiaccio con i cavi e le catene adorni di grosse stalattiti; visitò le Isole Orcadì e nella Georgia del Sud rese omaggio al sommo Shackleton, sepolto nella terra di quell’isola che lo vide rientrare da una delle più grandi imprese polari di tutti i tempi.
I due viaggi antartici, realizzati con la piccola nave, intendevano richiamare l’attenzione dell’Italia sul “continente di ghiaccio”, poco conosciuto all’epoca, e indicare i molteplici interessi nei campi più diversi che esso avrebbe offerto. La via era stata aperta con appassionato entusiasmo e con tanti sacrifici, ma purtroppo i tempi mutati non consentirono la prosecuzione del progetto, che prospettava al nostro Paese la gestione di una Base, allora offerta con una spesa assai contenuta da una nazione che in quegli anni stava riducendo la propria presenza laggiù. La proposta era stata fatta in via ufficiosa a Giovanni Ajmone-Cat, che ormai era conosciuto e stimato per il suo operato nell’estrema regione australe e che ne sarebbe stato il garante. Sfumò in tal modo un’occasione che avrebbe favorito e anticipato l’ingresso dell’Italia nel Trattato Antartico.
Fu un gran dispiacere per mio fratello non vedere un seguito ai suoi viaggi polari, per i quali aveva lottato e sofferto con il sostegno di una solida fede e che egli amava perché erano stati la piena espressione dei multiformi talenti che il Buon Dio gli aveva affidato. Comunque le spedizioni del “San Giuseppe Due” e la partecipazione ad esse della Marina Militare entrarono a buon diritto nella storia antartica. Le 7.000 miglia di mare che separano l’Italia dall’Antartide erano state attraversate due volte, e due volte il “San Giuseppe Due” aveva condotto arditamente il Tricolore nelle acque del continente australe per realizzare ”un sogno, un programma, un ideale”… come amava dire Giovanni Ajmone-Cat.
Giovanni Ajmone Cat: cronache antartiche 1969-1974
di Ioanna Protopsalti, Ester Colizza, Gianguido Salvi – Museo Nazionale dell’Antartide – Sezione di Trieste – Dipartimento di Matematica e Geoscienze – Università degli Studi di Trieste
Portare il “Tricolore tra i ghiacci del Sud”, questo era il sogno di Giovanni Ajmone-Cat. Un sogno che è riuscito a realizzare sia nel 1969 che nel 1973. Uno dei primi esempi di avventuriero moderno: è stato esploratore, navigatore ma soprattutto un grande sognatore che ha raggiunto due volte l’Antartide con il motoveliero “San Giuseppe Due”, una splendida feluca a vele latine appositamente costruita per affrontare le lunghe traversate oceaniche, diventando così il primo italiano a compiere questa incredibile impresa. Di nobili origini (Roma, 5 marzo 1934 – Como, 18 dicembre 2007), figlio della contessa Carlangela Durini di Monza e di Mario Ajmone-Cat (Primo Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare italiana), fu il primo italiano che con le sue imprese riportò “l’Italia all’epoca delle grandi spedizioni geografiche”. Dedito alla navigazione a vela sin da piccolo, si cimentò dapprima sulle placide acque del lago di Como poi, conseguita la maturità classica, ricevette in dono un gozzo (barca da pesca in legno, che ha le sue origini nella tradizione marinara italiana) a vela latina di poco più di 7 metri, il “San Giuseppe”, con il quale iniziò a navigare sulle acque più severe del Mar Tirreno, travolto da una grande passione.
Si laureò in Scienze Agrarie a Perugia e successivamente partecipò alla fase finale del grande progetto della bonifica delle “Paludi Pontine” note con il nome odierno di Agro Pontino (1928-35). Ciò gli permise di acquisire spiccate capacità organizzative e di comando, affinando un già peraltro predisposto spirito dedito al sacrificio che fu determinante in numerose occasioni durante i suoi viaggi Antartici. Verso la fine degli anni ’60 del secolo scorso, ad Anzio, meditando sulle esplorazioni degli anni passati, prese forma il suo sogno: portare l’Italia tra i ghiacci dell’Antartide. Quindi ideò e progettò insieme a Girolamo Palomba, eccezionale maestro d’ascia dei cantieri navali Palomba di Torre del Greco, una feluca di 16 metri, il “San Giuseppe Due”, un motoveliero stabile e sicuro nell’affrontare i burrascosi mari australi e capace di rompere i ghiacci antartici, spessi anche sino ad un metro.
Il primo viaggio, concepito seguendo il progetto di Giacomo Bove (ardimentoso navigatore ed esploratore italiano 1852-1887), iniziò il 27 giugno 1969 da Anzio. Durante questo viaggio incontrò parecchie difficoltà dovute a frequenti avarie e complicazioni burocratiche legate al transito di numerosi Paesi stranieri lungo il tragitto. L’importanza di questa prima spedizione si concretizza con il tracciare i primi rilievi idrografici nonché nell’effettuare campionamenti ed osservazioni vulcanologiche nella baia, di recentissima formazione (geologicamente parlando!), dell’Isola di Deception – Antartide rimasta sino a quel momento inesplorata. La spedizione terminò il 21 dicembre 1971, con l’arrivo del “San Giuseppe Due” ad Anzio.
Diretto in Antartide per una seconda spedizione, salpò il 1 luglio 1973 da Torre del Greco, questa volta con il patrocinio della Lega Navale Italiana, l’adesione dell’Istituto Universitario Navale di Napoli e del Circolo Nautico di Torre del Greco. La Marina Militare, anche questa volta, gli mise a disposizione altri sottoufficiali volontari in qualità di equipaggio: il Direttore di macchina e Capo Gruppo Mario Camilli, il Secondo Capo macchine di bordo Tito Mancini, il Sergente nostromo Giovanni Federici e il Sergente radiotelegrafista Giancarlo Fede. A dicembre dello stesso anno raggiunse successivamente il gruppo, a Port Stanley – Isole Falkland, il Comandante Pilota dell’Alitalia Dario Trentin che rimase a bordo soltanto per la traversata antartica. Nel corso di questa spedizione, oltre ad osservazioni di carattere geologico, marino e comportamentale in ambienti estremi, Ajmone Cat riuscì a completare il lavoro idrografico e vulcanologico, iniziato durante la prima spedizione. La spedizione fece ritorno ad Anzio il 27 giugno 1974, dopo ben 12 mesi di viaggio.
Per queste rischiose quanto affascinanti imprese ad Ajmone-Cat, in qualità di Capo spedizione, venne conferita la Medaglia d’Oro di Benemerenza Marinara e d’Argento ad entrambi gli equipaggi della Marina Militare Italiana e al Sig. Dario Trentin, che volontariamente presero parte a queste incredibili avventure. In riconoscimento delle sue epiche gesta, e a soli due anni dalla sua morte, al Comandante Ajmone Cat è stata intitolata la baia dell’Isola di Deception, con il nome “Ajmone-Cat Lake”.
Il suo sogno, attraverso le spedizioni del “San Giuseppe Due” e la partecipazione della Marina Militare, entrarono a pieno titolo a far parte della storia della Marina Militare Italiana e soprattutto della più ampia avventura italiana in Antartide. Il “San Giuseppe Due” è stato donato alla Marina Militare Italiana e attualmente si trova nell’Arsenale della Marina Militare di La Spezia. I documenti ed i preziosi cimeli raccolti nel corso delle due spedizioni sono state affidati al Museo Nazionale dell’Antartide – Sezione di Trieste dove, nel 2019, è stata inaugurata una nuova sala espositiva interamente dedicata al grande navigatore ed esploratore italiano. La sede triestina del Museo Nazionale dell’Antartide è focalizzata sulla storia dell’esplorazione del continente antartico e sulle ricerche in geologia e geofisica marina e ha come scopo la diffusione e la divulgazione dei risultati della ricerca scientifica italiana in Antartide.
Museo Nazionale dell’Antartide – Sezione di Trieste