*di Bianca Sestini*
Oltre al suo magnifico lago, gli Etruschi sono il motivo principale della fama di Chiusi dentro e fuori dalla Toscana. Stando a fonti latine, sarebbe stato uno dei primi insediamenti di questa antica civiltà. Per alcuni la città fu fondata da Telemaco, il figlio di Ulisse, per altri dall’eroe Cluso. Da allora, la Storia ha disseminato nel centro urbano e nei dintorni un numero impressionante di tracce. Tanto che non solo epoche differenti, ma anche i periodi intermedi tra l’una e l’altra sono raccontati da opere e reperti conservati al chiuso di chiese e musei, a volte a cielo aperto o, ancora, nel sottosuolo.
Per entrare nel Labirinto di Porsenna bisogna accedere all’orto vescovile, al di là del porticato che si trova a fianco del Duomo. Da lì una rampa di scale conduce all’imbocco di questa “Chiusi sotto Chiusi” di cui l’acqua è il filo conduttore: un acquedotto etrusco risalente al III-IV secolo a.C., esteso in totale per più di due chilometri. Già dietro al nome del complesso c’è una storia interessante, allacciata alla leggenda che vi immaginava sepolto il lucumone Porsenna.
Della rete di tunnel che si snoda al di sotto della pavimentazione stradale oggi sono percorribili circa 120 metri. Le perlustrazioni cominciarono alla fine degli anni ‘70; gli scavi, condotti dai volontari del Gruppo Archeologico di Chiusi, furono avviati un decennio dopo per terminare nel 1995, anno dell’inaugurazione del sito. La contaminazione fra dimensioni spazio-temporali diverse è qualcosa di fisico, impossibile da ignorare fin dall’inizio dell’esplorazione. Sopra alla testa dei visitatori si apre la piazza della torre campanaria, con la Cattedrale e il suo museo. Si cammina in fila indiana, avvolti nella penombra. Dei fari di luce gialla rischiarano i meandri in cui un’intera comunità ha trovato per decenni acqua potabile.
Era proprio questo l’intento dei suoi costruttori, assicurare rifornimento idrico ai chiusini. Per il processo di depurazione e stoccaggio dell’acqua piovana gli Etruschi poterono contare su una speciale combinazione di clima e geologia. Da un lato, a quel tempo pioveva molto più di ora e il poggio che ospita il Labirinto era circondato da aperta campagna, una situazione che agevolava l’infiltrazione dell’acqua nel terreno. Dall’altro, pure la conformazione ambientale è stata fondamentale. Cadendo al suolo, dopo la terra arabile, le precipitazioni incontravano uno strato di terreno prodotto dalle eruzioni di un vicino vulcano. In maniera simile a una spugna, queste rocce sedimentarie ne trattenevano le impurità attraverso varie reazioni chimiche, rilasciando acqua già mineralizzata e atta al consumo umano. Al di sotto la sabbia, legata all’origine marina delle colline della zona, faceva da ulteriore filtro. Goccia a goccia, l’acqua si depositava sul livello successivo, di argilla impermeabile, che si prestava bene alla canalizzazione verso i pozzi comuni.
I pozzi, grandi protagonisti del Labirinto di Porsenna, servivano a volte per prelevare l’acqua, a volte per illuminare e ventilare le gallerie, impedendo così che la riserva idrica ristagnasse e imputridisse. Sempre queste cavità fungono da trait d’union con la “seconda vita” della struttura, sotto la dominazione romana. Da via d’acqua a cloaca e discarica della cittadina il passo fu breve. Si dà quasi per certo che nel frattempo l’approvvigionamento fosse cambiato, tramite un acquedotto di superficie; i Romani decisero quindi di sfruttare questa porzione di “Chiusi underground” come deposito di spazzatura, che veniva gettata nei cosiddetti pozzi di butto.
La splendida cisterna con cui si chiude il viaggio ipogeo del Labirinto di Porsenna è databile al I secolo a.C., un periodo di coesistenza fra due culture. Prova ne è il doppio stile architettonico di questo ambiente. La colonna centrale, gli archi, le volte e soprattutto la muratura a secco riflettono la tecnologia etrusca. Quella romana invece è rappresentata dal cocciopesto, un intonaco che manteneva a perfetta tenuta stagna la vasca di travertino. Quale funzione aveva questo straordinario serbatoio? Attraverso grondaie e tubature, qui gli abitanti facevano confluire una scorta d’acqua per spegnere eventuali incendi. Un’incombenza riservata a un gruppo di addetti specializzati, riuniti nel collegium centonariorum, il primo tentativo storico conosciuto di professionalizzare il mestiere del pompiere.