*di Federico Quaranta*
Troppo frequentemente diamo per scontata la nostra libertà, ma non è stato sempre così. Il secolo scorso ci ha insegnato che questa può essere facilmente repressa, violata e tradita. Ma non bisogna confondere la libertà con la convinzione che tutto sia concesso, la libertà è molto più vicina un dono e come ogni dono bisogna saperlo accogliere e di conseguenza custodire difendere. Dalla foce dell’Isonzo comincia il mio cammino, un cammino che mi farà attraversare il Carso seguendo il confine che ci divide con la Slovenia, un confine lungo il corso della storia. Una storia che aspetto usurpato la libertà dei popoli. Friuli Venezia Giulia riserva naturale delle Foci dell’isonzo è una delle Oasi ambientali più affascinanti che io abbia mai attraversato durante i miei cammini nasce per l’incontro delle acque del fiume con quelle del mare Adriatico. L’isonzo ha sempre rappresentato un confine lo è dal punto di vista naturale, per tutte quelle specie migratorie che qui trovano una vera e propria isola di ristoro prima di compiere il grande salto verso le regioni del sud, lo è dal punto di vista politico. Infatti corre per 40 chilometri nel territorio nazionale da Gorizia al mare ma per ben 100 chilometri dalle sorgenti in territorio sloveno. Lo è anche dal punto di vista geologico, infatti grandi altipiani carsici qui lasciano lo spazio alle immense pianure fluviali. Qui l’acqua dolce incontra quella salata creando una palude salmastra. Non è da dimenticare l’aspetto storico sull’Isonzo durante la Prima Guerra Mondiale si sono combattute importantissimo e feroci battaglie proprio per una questione di confine.
“Come questa pietra del San Michele così fredda così dura così prosciugata così refrattaria così totalmente disanimata, come questa pietra è il mio pianto che non si vede. La morte si sconta vivendo” recita così la poesia. Sono una creatura di Giuseppe Ungaretti, uno dei più importanti poeti del Novecento, che qui il Monte San Michele del Carso visse un anno della sua vita tra il 1915 e il 1916 combattendo in queste trincee, vide morire i suoi amici, i commilitoni, i compagni d’armi. Lo chiamavano Monte ma in realtà si tratta di una collina non più alta di 270 e a valle serpeggia l’Isonzo. Volevano conquistare questo territorio gli italiani per lungo tempo sotto il dominio austro-ungarico pensavano si trattasse di una formalità occorsero ben 12 battaglie quelle dell’Isonzo, così chiamate, che culminarono con la disfatta di Caporetto 300.000 morti due milioni tra i feriti e mutilati e i prigionieri non meno atroci delle vittime nemiche. Le trincee furono realizzate dall’esercito asburgico con un andamento curviforme per due motivi. Intanto bisognava vincere la resistenza della roccia, non cosa semplice da scavare nel Carso, e poi una linea retta sarebbe stata spazzata via da un solo colpo di artiglieria. Furono erette, meglio scavate, per fermare l’avanzata degli italiani che invece le conquistarono nella sesta battaglia dell’Isonzo nell’agosto del 1916.
Proprio qui sul San Michele è stata ritrovata la nonna delle 11 salme tra le quali fu scelto cent’anni fa il Milite Ignoto. Che cosa poteva voler dire vivere in mezzo alla terra difesi dalle pietre, accovacciati giorno e notte, inverno ed estate, sotto il sole cocente o magari sepolti dalla neve e condizioni erano a dir poco disumane. Le granate esplodevano una dopo l’altra a poche decine di metri trafiggendo I corpi con schegge incandescenti. La paura si respirava più dell’ossigeno stesso. Anni dopo gli uomini feriti nella carne, i mutilati ed i reduci furono presentati al mondo come fossero eroi. Ma ce n’erano altri completamente dimenticati, la loro mente non aveva retto, trafitta anch’essa ma in modo diverso scemi di guerra li chiamavano in senso dispregiativo, non ce l’avevano fatta. Gli orrori della guerra erano stati troppo forti, anche superiori al loro stesso pensiero. Ad attraversarlo oggi questo bosco rigoglioso non rende l’idea, non riusciamo ad immaginare come fosse effettivamente molte San Michele al tempo della Prima Guerra Mondiale. Una grande distesa di pietre nulla più, non c’erano gli alberi. E gli uomini che qui combattevano se lo chiedevano ripetutamente: perché tanto sacrificio umano perché scommettere la vita solo per un mucchio di sassi. Quando l’esercito italiano conquistò la sommità di Monte San Michele non era più il cuore della battaglia il fronte si era già spostato altrove lungo l’Isonzo e i soldati una volta qui in un attimo di pace poterono godere del panorama e volgendo lo sguardo osservare anche l’altopiano del Doberdò. Il fiume aveva intanto già disegnato un nuovo confine. Quando Giuseppe Ungaretti tornò sui luoghi dove aveva combattuto 50 anni dopo era il 1966, trovò un ambiente completamente cambiato era rigoglioso fertile, non riconobbe più le pietre desolate e insanguinate che aveva lasciato e disse il Carso non è più un inferno… è il verde della speranza.
Il Carso è un labirinto caotico, un luogo dove è facile perdersi basta a svoltare all’improvviso è ritrovarsi su un sentiero che nessuno ha segnalato e che si è confuso con la generosità della natura ma è il modo migliore questo per comprendere le caratteristiche del territorio unico nel suo genere. Dolina è una parola di origine slovena la cui radice “dol” vuol dire avvallamento. Ma come si genera questo fenomeno carsico: l’acqua scava nel sottosuolo e genera profonde caverne quando la volta crolla, si scopre la grotta, quando invece collassa si genera un concavo: la Dolina. Quando doline e grotte si sommano allora ecco lo stupore. Di Grotte del Carso ne sono state recensite circa tremila ma secondo gli esperti non sono neanche il 10% di tutte quelle che si possono trovare in questa immensa pietrata.
GROTTA DELL’ORSO (TS)
Un bosco di pietre è una metonimia e chiaro ma spiega bene la fatica che le genti del Carso hanno provato vivendo questo ambiente sassoso. Manca la terra per poter essere coltivata e allora la Dolina offriva due opportunità: intanto è fertile, e allora si scendeva fino in fondo per poter creare un po’ di agricoltura. Bastava un muretto a secco per generare un terrapieno e poi proteggeva da un altro flagello: la bora che qui è capace di spirare a più di 100 chilometri all’ora. La Dolina però non doveva essere troppo profonda perché altrimenti il gelo avrebbe avuto il sopravvento e allora gli uomini erano costretti a calarsi in profondità per cercare un po’ di humus, terra fertile, da portare la fatica sulle spalle fino in superficie e coprire un pezzo di pietre per poter generare agricoltura: cibo!
Ecco l’incontro tra depressione e caverna, la natura è sempre capace di sorprenderti è la grotta dell’Orso è uno spettacolo immensa, chissà dove finirà nelle viscere della terra quell’inghiottito. è larga più di 40 metri ed è profonda più di 20. Scavi archeologici hanno testimoniato la presenza dell’uomo qui dentro fin dal neolitico ma quest’antro ha rappresentato un rifugio perfetto per moltissimi animali tanto che sono stati ritrovati resti di lupi, iene e volpi ma soprattutto di orsi ed una specie in particolare risalente al pleistocene l’ursus spelaeus.
VILLAGGIO DEL PESCATORE, Duino (TS)
Sul Carso non corre una linea di confine soltanto legata alla storia dell’uomo, nel territorio di Duino infatti si nasconde una storia antichissima risalente a più di 70 milioni di anni fa e proprio tra questi boschi e tra queste cave è possibile fare un vero viaggio nel tempo. È proprio qui che sono stati ritrovati i resti fossili di diverse specie di dinosauri e di piante risalenti al cretaceo superiore, animali e piante che ci descrivono come doveva essere probabilmente l’ecosistema primordiale del Carso. Ma le scoperte più importanti sono sicuramente quelle di Bruno e Antonio, due dinosauri appartenente al gruppo degli adrosauri, animali che inizialmente si pensava fossero marini ma che in realtà si sono rivelati essere degli erbivori più simili ai bisonti dei giorni di oggi cioè pascolavano in mandrie nelle praterie europee. Il loro nome latino, il vero nome scientifico “Tethyshadros insularis”, ricorda però il mare, la tetide il mare delle origini, per queste scoperte, le Scoperte di Bruno Antonio, il Villaggio del Pescatore è oggi considerato uno dei siti paleontologici più importanti d’Europa.
RISERVA NATURALE DELLA VAL ROSANDRA (TS)
Esiste una parola di origine Slava corrente nel dialetto triestino che è grembano e vuol dire sentiero roccioso cresta di monte ma è utilizzata dalla gente di città in modo dispregiativo nei confronti di quelle persone che vengono dall’ altopiano carsico come dire sei un bifolco, un uomo della pietra. Vuol dire che è fortissimo il legame tra gli abitanti di questo territorio è la materia prima: la pietra. Se vogliamo però andare oltre possiamo proprio pensare che la stessa parola carso abbia una radice indoeuropea vuol dire pietra, ma facciamo ancora meglio esistono in Italia i fenomeni carsici gli altopiani che portano questo nome sono disseminati in tutto il mondo. Ma perché si chiamano così? Perché questo genere di territorio per la prima volta è stato studiato proprio qui. Le pietraie desolate lunghe chilometri e chilometri, come le chiamava Ungaretti nelle sue poesie scritte durante la prima guerra mondiale. Uscendo dal bosco si alza il sipario sulla Val Rosandra, il cuore del Carso, a pochi km dal centro di Trieste. Si incunea penetrando il territorio sloveno. Imponente, maestosa e severa. Scolpita dalle acque del fiume omonimo con le sue pietraie un Carso nel Carso. E laggiù una piccola chiesa incastonata come fosse un diadema è Santa Maria del Siaris. Immagino la fatica di tutti quelli che hanno dovuto percorrere le mulattiere per portare il loro fardello di sassi e anche a quella che compiono il pellegrini nella loro ascesa a piedi scalzi, i bestemmiatori penitenti che ogni anno la raggiungono per espiare le proprie colpe. E in fondo dorme placido, lambendo l’Istria e Trieste, in mar Adriatico.