di Elia Banelli
Prima dell’avvento di Jean -Claude Izzo con la trilogia marsigliese dedicata al poliziotto “di strada” Fabio Montale, il noir francese ha conosciuto tra i suoi massimi esponenti un protagonista di eccezione, scomparso purtroppo da tempo: Jean-Patrick Manchette.
Scrittore, critico letterario, jazzista, considerato tra i più brillanti autori del noir contemporaneo, ha pubblicato una dozzina di romanzi tra il 1971 e il 1981, ridefinendo il contesto (e il concetto) stesso del genere letterario. Le sue opere infatti non rinunciano a una buona dose di violenza, i testi sono duri, cinici, diretti come una scarica di pallottole, costruiti intorno a uno stile ricercato e semplice allo stesso tempo, raffinato e implacabile, non sempre lineare, elegante nelle sue contorsioni, a volte improvvisato ma con giudizio, con una tecnica che sembra ispirata a una vera performance jazzistica.
Tutti i suoi romanzi, tra cui ricordiamo Posizione di tiro, Piovono morti e Principessa di sangue, sono stati tradotti in Italia da Einaudi, mentre l’unico titolo non ancora tradotto era proprio Che i cadaveri si abbronzino. Si tratta del primo, folgorante, romanzo d’esordio di Manchette, scritto a quattro mani con lo sceneggiatore e regista Jean-Pierre Bastid, riportato alla luce per la prima volta da Edizioni del Capricorno.
Un libro piuttosto breve (appena 190 pagine), pubblicato nel 1971 da Gallimard, uno dei più grandi editori francesi, che ha rivoluzionato il genere noir, proponendo uno stile scuro, incalzante, senza tregua.
La trama è ambientata in un villaggio nel profondo sud della Francia, gestito da Luce, una cinquantenne pittrice di chiare tendenze anarchiche, alcolizzata, molto ricca, che trascorre il suo tempo rivangando la giovinezza perduta. Per allontanare i turbamenti dell’anima che si affaccia alla mezza età, la donna tende a ospitare liberamente amici, amici di amici, nuovi e vecchi amanti, insieme a perfetti sconosciuti di passaggio. Senza fare troppe domande. Neppure quando i nuovi arrivati hanno un aspetto e un atteggiamento piuttosto originale e bizzarro. Per caso sono collegati a un sanguinoso assalto a un furgone portavalori avvenuto proprio a dieci chilometri di distanza, dove sono spariti ben 250 chili d’oro? E che cosa può mai succedere all’allegra e improvvisata comitiva di borderline, quando un’ignara coppia di poliziotti fa il suo ingresso al villaggio?
Una narrazione rapida che si consuma nell’arco di un giorno e di una notte di pura, ordinaria follia.
Un cocktail visionario, onirico, colmo di giubilante cupezza, condito con aride riflessioni politiche e sociali, sarcastiche e pungenti: «Gros non aveva mai avuto fortuna con le donne. Ne aveva sposate due. Si erano rivelate più cagne e costose delle puttane. Adesso preferiva queste ultime. Si sa cosa si dà e che cosa si riceve. Niente inganni».
Un dispositivo polifonico che potrebbe ricordare Faulkner, in cui si moltiplicano i punti di vista e le messe a fuoco. Un esito crudele come la realtà che non vorremmo mai conoscere.
Buona lettura.