*di Eliana Iorfida*
Qual è il giorno più celebre della storia della letteratura? Certamente il 16 giugno del 1904, ovvero la lunga giornata nella quale lo scrittore irlandese James Joyce scelse di ambientare l’Ulisse, capolavoro che quest’anno compie un secolo (edito il 2 febbraio 1922, giorno del compleanno dell’autore). Di quel 16 giugno sappiamo tutto, anche quello che non avremmo voluto o potuto e che – siamo onesti – non abbiamo ancora compreso fino in fondo, poiché Joyce ci costringe a percorrerlo ora per ora, minuto per minuto, trascinandoci in uno psicoviaggio abissale dal quale in pochi sono riemersi.
Un viaggio che Leopold Bloom, in compagnia di sua moglie Molly e Stephen Dedalus, compie dentro e fuori di sé, sullo sfondo di una Dublino che non disdegna di sovrapporsi a Trieste, parte del variegato universo joyciano. “La mia anima è Trieste”, sembra sussurrarci all’orecchio la statua che ritrae lo scrittore su Ponterosso, nel Borgo Teresiano. Gli passiamo accanto, passeggiando per le vie della città che gli fu patria elettiva, dove si accinse alla stesura dei primi tre capitoli di un capolavoro fra i più controversi della letteratura mondiale.
Trieste quale tappa orientale di un’Odissea che volge a un’Itaca occidentale, Dublino. È qui che Joyce delinea la sua personale psicogeografia: mappa fisica dei luoghi, cui sottende una mappa psicologica degli stessi, di volta in volta legati agli “stati di alterazione” dei tre protagonisti. Se Torre Martello è Stephen, i pub e le strade sono Leopold (Episodio 12 – Ciclopi) e la stanza da letto al numero 7 di Eccles Street è Molly. Tutto attorno, palpita il vissuto collettivo. Una città intera restituita per flussi di coscienza.
Nei diciotto episodi che compongono l’Ulisse, Joyce maneggia tecniche diverse: dalla narrazione classica in terza persona al dialogo, dalla parodia (Episodio 14 – Le mandrie del sole) all’acme assoluta del monologo conclusivo, interamente dedicato a Molly Bloom (Episodio 18 – Penelope), orchestrato in otto lunghi periodi privi di punteggiatura.
Una lotta ad armi impari contro il povero lettore? Una “spedizione in Nepal”, come ebbe a liquidarla la caustica Virginia Woolf o, piuttosto, una scrittura di “ostinato rigore”, per dirla con Borges, che nel ripercorrere con metodo l’Odissea offre una struttura esatta entro la quale raccapezzarsi? Come l’Ulisse di Omero anche quello di Joyce è un eroe che sfida sé stesso e il mondo viaggiando; anziché farlo per terre inesplorate preferisce solcare i lidi della topografia umana, là dove “Silenziosi, sassosi siedono negli oscuri palazzi d’entrambi i cuori: segreti stanchi della loro tirannia: tiranni desiderosi d’esser detronizzati”.