*di Bianca Sestini*
Da ottobre l’architettura del MAXXI di Roma cinge una foresta pluviale d’autore. Nella mostra Amazônia, Sebastião Salgado firma il ritratto fotografico di una meraviglia naturale vulnerabile e porta nella Città Eterna l’unica tappa italiana del suo più recente progetto.
Sono più di 200 le fotografie protagoniste di questa esposizione, prodotta dal Museo nazionale delle arti del XXI secolo e da Contrasto. Una nuova, attesa prova d’arte del celebre fotografo brasiliano dopo l’enorme successo riscosso con Genesi. Rispetto a quest’ultimo, Amazônia è un lavoro dalle coordinate geografiche più ristrette, sebbene parlare di limitatezza per una porzione di mondo più grande dell’intera Unione Europea faccia abbastanza sorridere.
Alcuni la chiamano “Oceano Verde”, mentre pare che siano stati i primi esploratori a coniare per la foresta l’appellativo di “Inferno verde”, a causa degli innumerevoli pericoli che si celano al suo interno. Sebastião e Lélia Wanick Salgado, sua compagna di vita oltre che curatrice della kermesse, l’hanno esplorata per settimane, viaggiando a piedi, via fiume, in aereo o elicottero e trascorrendo lunghi periodi ospiti nei villaggi delle popolazioni indigene. Sono stati necessari sei anni di studi, interviste e scatti per creare l’antologia fotografica di Amazônia. Uno sforzo documentario e creativo che, come è tipico della produzione di Salgado, per quanto non esaurisca inevitabilmente il soggetto, è capace di cavarne fuori l’anima con perfezione chirurgica e straordinaria eleganza.
Quante foto servono per illustrare il polmone verde della Terra? Con un’area pari a un terzo del Sud America, l’Amazzonia potrebbe essere un continente a sé stante. Le sezioni in cui è organizzata la mostra danno spazio alle componenti principali di questo patrimonio eccezionale, magnifico e incredibilmente fragile allo stesso tempo. Salgado ha scelto di raffigurare la foresta pluviale da una prospettiva determinata. Il suo obbiettivo si è soffermato su un’“Amazzonia viva, incontaminata, ossia la parte più consistente”, ha dichiarato l’artista. Un taglio determinato, orientato al messaggio di fondo del progetto. “L’idea era rappresentare l’Amazzonia in modo che le persone potessero comprendere quanto sia fondamentale e quanto abbia bisogno di essere protetta”.
Una delle cose che per prime colpiscono il visitatore è il talento di Salgado nel mantenere la giusta distanza che bilancia il generale e il dettaglio. Perché l’Amazzonia non si riduce ai suoi abitanti umani, animali e vegetali; accanto ai suoi confini tangibili – fatti d’acqua, terra, tronchi, foglie – c’è un perimetro sfumato e dinamico, in cui la luce incontra i mille volti della natura e la foresta si svela nella sua essenza singolarissima e maestosa.
La mostra si presenta divisa in due grandi capitoli. Nel primo Sebastião usa il linguaggio dei paesaggi. La distesa verde vista dall’alto, i “fiumi volanti”, piogge, isole, piante e montagne emergono dalla penombra su supporti sospesi a cui il pubblico può avvicinarsi come muovendosi dentro una foresta-avatar. L’immersività sta a cuore sia all’autore che alla curatrice dell’esposizione. Come se la comprensione intellettiva per i Salgado passasse innanzitutto dal sentire sensoriale ed emotivo, questo gioiello del pianeta respira dentro le pareti del museo anche attraverso videoproiezioni, voci e sottofondi musicali registrati in loco o riprodotti ispirandosi all’Amazzonia.
Bisogna addentrarsi nel cuore del percorso per incontrare l’uomo. L’allestimento ha previsto delle strutture che evocano le ocas, le case delle tribù custodi della foresta. Salgado è un fuoriclasse nell’azzerare la lontananza. Sembra che sia bastato spiegare agli indiani d’Amazzonia il progetto e il loro ruolo nel racconto fotografico per convincerli a partecipare. Immagini e parole sulla vita quotidiana e le difficoltà affrontate da questi popoli completano l’ennesimo miracolo del più famoso fotografo documentarista del nostro tempo. Una narrazione di sublime poesia per proteggere un Eden che appartiene alla Terra prima che all’umanità e la quale, nella peggiore delle ipotesi, ne testimonierà l’inestimabile fascino per sempre. Fino al 13 febbraio, a Roma.