*di Paolo Di Giannantonio*
Nella tristezza di un campo di prigionia, durante la Prima Guerra Mondiale, guerra in cui ancora contavano per lo più le baionette e gli assalti all’arma bianca, un giorno, il protagonista del nostro racconto ebbe una improvvisa folgorazione. Era un giovanissimo interprete dell’esercito tedesco e, tra le altre lingue, conosceva anche l’italiano. Sentì che quei prigionieri, italiani, parlavano un altro idioma che, peraltro, lui comprendeva: il greco. Si avvicinò e chiese il perché di quella stranezza. E quelli, timidamente, gli risposero che erano italiani sì, ma in particolare calabresi e, per meglio dire, greci di Calabria, della Bovésia.
Ecco che comincia così la storia di Gerhard Rohlfs, uno dei più geniali glottologi e dialettologi d’Europa. Figlio di un vivaista, appassionato di piante, aveva cominciato con la botanica. Ma poi avevano preso il sopravvento gli studi sulle lingue, sulle loro origini, sul rapporto con il territorio, la natura e le tradizioni. Le premesse, insomma, perché quel giovane e vivacissimo tedesco diventasse un “archeologo della parola”, colui che avrebbe ridato dignità al grecanico, lingua che nei secoli si era rifugiata – per non scomparire – in quegli scenari impenetrabili ma di selvaggia bellezza. Ancora oggi – ed è capitato a chi scrive – potrebbe accadere di incontrare, al seguito del suo gregge di capre, un pastore che con grande naturalezza racconta di parlare in casa, con la moglie, nella lingua di Omero. A chi scrive è apparsa una circostanza miracolosa, un evento di cultura, vita e società da raccontare ogni volta che si può. Ma torniamo a Rohlfs. Eccolo arrivare, giovanissimo quindi, in Calabria.
Curioso, ansioso di scavare in quella miniera di cultura grecanica che i più ignoravano o, peggio, snobbavano. Con grinta germanica, con una lettera di presentazione firmata da Benedetto Croce e, soprattutto, con “buone scarpe”, ha affrontato le salite dell’Aspromonte (certe volte a piedi) per arrivare a Bova, Gallicianò, Roghudi, Condofuri, Pentedattilo, San Lorenzo, Africo Vecchio. In realtà di paesi – in Italia – ne visitò ben 365, alcuni ricorrendo persino allo scomodo dorso di un mulo. E lì, sedendosi al bar col suo taccuino, anno dopo anno, parlava, osservava e annotava. Beveva una birra, giocava a carte. Puntigliosamente si faceva ripetere dagli anziani del paese ogni sfumatura di pronuncia. E catalogava usanze, parole, modi di dire, proverbi, giochi, nomi e soprannomi. Tutto questo, nel corso di sessant’anni di appassionato lavoro che lo ha portato a comporre 700 scritti, 15 dei quali dedicati solo alla Calabria. Dalla tesi di laurea, “Greci e romani nel Mezzogiorno d’Italia”, ai fondamentali “Dizionario dialettale delle tre Calabrie”, “Dizionario dei cognomi e dei soprannomi della Calabria” e “Dizionario toponomastico della Calabria”. Intendiamoci: Rohlfs, oltre al greco di Calabria, ha studiato anche il griko di Puglia, altri dialetti romanzi ed ha effettuato indagini anche in Francia e Spagna. Un “vulcano”, un vero cervellone, che non rinunciò mai, anche dopo aver ottenuto la cattedra in Filologia Romanza nella prestigiosa Università di Tubinga, alla sua attività sul campo. Il grecista Franco Mosino, che del tedesco fu amico, ricorda una critica che egli rivolgeva ai colleghi italiani, più propensi a rimanere dietro ad una scrivania che all’azione. Ma la Calabria era particolarmente nel suo cuore e ogni anno vi è tornato.
Con la penna e con la macchina fotografica: le sue foto del mondo contadino, che stava scomparendo già nel secondo dopoguerra, sono un efficacissimo trattato di antropologia. E a questo punto consigliamo una visita al bel museo “Gherard Rohlfs” di Bova, al quale il direttore, Pasquale Faenza, dedica cure assidue. Oltretutto si possono godere panorami di incomparabile bellezza. La tesi che appassionava lo studioso Rohlfs era che quella lingua, parlata ma non scritta, derivasse proprio dai primi greci che colonizzarono il Sud d’Italia nell’ottavo secolo avanti Cristo. Altri esperti, invece, sostenevano che si trattasse di un lascito, molto più tardo, dovuto all’arrivo in Calabria dei Bizantini, in particolare dei monaci “basiliani”. Testimonianze di quest’ultima presenza sono visibilissime ancora oggi in varie parti della regione ed anche in questo caso varrebbe la pena di seguire queste tracce. Spiritualità, turismo, natura e Bova – Rione S. antonio e Chiesa S. Rocco Bova – Particolari del Museo “Gherard Rohlfs” perché no, ottimo cibo. “Conversando con i contadini fui sorpreso dall’incredibile varietà dei dialetti italiani”, raccontò Rohlfs quando già era diventato un professore affermato. Nel caso della Calabria si preoccupava che il grecanico potesse scomparire. Ne avvertiva la crescente agonia. Il fatto è che i latini, i normanni, gli italiani tutti, fino al regime fascista, non videro di buon occhio questo spicchio di Grecia in Italia. Così la lingua rimase, sempre parlata ma non scritta, utilizzata da contadini e pastoriche salirono sempre più in alto, in Aspromonte. Si convinsero, poi, che sarebbe stato meglio non tramandarla ai figli perché li avrebbe penalizzati. E si verificò l’assurdo che il greco fosse l’idioma… degli ignoranti. L’azione culturale, a tutto campo, di Gerhard Rohlfs e di un pugno di altri letterati, però, diede vita ad un momento di rinascita che prosegue ancora con vigore: oggi i corsi di greco di Calabria sono sempre più frequentati. Vale la pena di citare, ad esempio, la meritoria opera di Maria Olimpia Squillaci, a Bova. Grazie a lei c’è persino un dizionario online di grecanico, che non sarà più una lingua parlata comunemente ma sarà una lingua sempre più studiata. Capelli bianchi, bretelle, giacca di tweed, occhiali con la montatura rotonda, il professore tedesco sembrava il perfetto continuatore della tradizione dei letterati e degli artisti che scendevano in Italia per quel “gran tour” avviato da Goethe. Ma in più Rohlfs ci ha messo il cuore.
E ha lasciato tanti amici e ricevuto molti riconoscimenti: socio straniero dell’Accademia della Crusca e dell’Accademia dei Lincei, gli è stata conferita la laurea honoris causa in Lettere dall’Università della Calabria. E’ divenuto cittadino onorario di Bova, Candidoni, Tropea e Cosenza. Ma forse quello che gli farebbe più piacere è la targa commemorativa che gli è stata dedicata a Badolato: “Il più Calabrese dei figli di Germania”. Importante, oggi, è non dimenticarlo. Lui saluterebbe come faceva sempre. Con un semplice… calabresissimo “ndi vidimu”.