di Teodolinda Coltellaro – critico d’arte
Poter immergersi nel lavoro creativo di Mario Cresci è sempre un’esperienza conoscitiva privilegiata. L’occasione ci è offerta dal progetto “Artisti in residenza” promosso dall’ICCD (Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione) del MiBACT che, per la seconda annualità, ha coinvolto proprio Cresci, annoverato tra i maestri della fotografia italiana contemporaneache hanno contribuito a innovarne il linguaggio. Il progetto rientra nelle politiche sul contemporaneo portate avanti dall’Istituto con l’obiettivo di rileggere attraverso una successione di sguardi d’autore le sue straordinarie raccolte fotografiche storiche e, contestualmente, promuovere nuove produzioni con cui arricchire ulteriormente le proprie collezioni. È nato così l’incontro, fecondo di nuove declinazioni del vedere, tra l’ICCD, il suo immenso archivio e lo sguardo analitico, progettuale di Cresci; un autore difficilmente ascrivibile ai soli territori linguistici della fotografia e per cui il medium è solo un “pre-testo”, è linguaggio, è scrittura, è ricerca sul campo,sperimentazione continua. D’altronde, la sua storia, la sua identità operativa non sono racchiudibili in una definizione univoca o comunque nella categorizzazione di un ruolo, proponendo all’analisi una molteplicità di lavori multidisciplinari che travalicano i limiti tra generi artistici, in una ininterrotta germinazione di modelli visuali. Il suo percorso di visione nell’archivio romano diventa così un affascinante viaggio di scoperta tra depositi di memorie fotografiche, di antiche lastre, di immagini, di segni, di storie, di emozioni visive; un particolare attraversamento del tempo che si offre a interventi creativi, a contaminazioni segniche. D’altra parte, Cresci non è nuovo a tracciati di memoria e a processi di manipolazione condotti su fotografie del passato. Basti pensare al lavoro, di matrice antropologica, realizzato negli anni ’70 a Tricarico, in provincia di Matera. La sua avventura di esploratore visivo in questo prezioso forziere di segni rappresentato dall’ICCD, ripercorre le stesse vie d’analisi e, nel solco evolutivo del suo lavoro, anche quelle riferite ad altre sue ricerche (si ricordano, in proposito, “Geometria non euclidea”,“Geometria naturalis”) in cui ha sperimentato tecniche, ibridazioni linguistiche al confine tra fotografia e disegno, tra geometria e visioni naturali.
Non a caso Michele Smargiassi in un suo recente articolo su Repubblica per definire la complessità della sua figura, conia il singolare neologismo di “semiurgo”, intendendo indicare con esso chi come lui i segni “li suscita, li mette al lavoro” usando il medium fotografico per andare oltre esso, per sconfinare in altri universi segnici.
La sua formazione di fotografo, in cui convive la dimensione più ampia di “operatore del visivo” che rimanda al design, alla grafica e più in generale all’arte, trova negli spazi archivistici dell’ICCD materia prima essenziale su cui innestare ipotesi, idee progettuali, nuove possibilità di ricerca. Tra centinaia di fotografie che scorrono davanti ai suoi occhi, egli sofferma la propria attenzione sui numerosi ritratti della raccolta di foto dell’archivio di Mario Nunes Vais. Dalla visione delle sue foto, realizzate a Firenze tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, inizia a prendere consistenza in lui “il tema dell’umano e della sua rappresentazione fotografica” e, in questa direzione, sceglie una serie di fotografie con soggetti femminili, perché gli è sembrato – come lui stesso spiega – che avessero maggiore ricchezza di dettagli e maggiore libertà di posizioni rispetto ai ritratti maschili piuttosto omologati tra loro. La sua esplorazione analitica approda poi ad un’ulteriore scelta, ossia fotografie di sculture di epoca romana (realizzate nelle gipsoteche della Capitale), spesso copie di opere greche, in cui rintracciare le radici generative dell’universo scultoreo classico. Due direzioni d’indagine, quindi, quelle enucleate da Cresci, che si intrecciano e si sovrappongono nello sviluppo del pensiero visivo che dall’umano al femminile proposto dalle fotografie di Vais conduce all’umano delle sculture, e viceversa, in uno scambievole flusso di immagini in cui stratificazioni segniche, dettagli plastici, narrazioni sociali e storiche diventano elementi funzionali a trasformazioni formali e linguistiche.
Quello condotto da Cresci è un meticoloso processo di elaborazione che va dalla fotografia ad alta risoluzione dei soggetti prescelti, alla post produzione digitale, agli interventi di manipolazione sulla struttura compositiva dell’immagine, all’inclusione in essa di nuovi segni e forme che non snaturano l’originale, bensì propongono una pluralità di sguardi e di visioni in un intenso scambio dialogico tra passato e presente tra l’antico dei rimandi evocativi e l’attualità creativa dei suoi segni. Questo complesso e paziente procedimento operativo giunge a conclusione con la realizzazione di 29 opere fotografiche, identificate con i numeri d’inventario invece che da didascalie, a richiamare lo stesso concetto d’archivio nonché la loro derivazione e collocazione fisica. Esse confluiscono nella mostra curata da Francesca Fabiani e allestita negli spazi dell’ICCD a Roma, già rinviata per l’emergenza sanitaria da Covid 19. Inaugurata lo scorso 23 giugno e visitabile fino al 30 ottobre, la mostra è intitolata emblematicamente “L’oro del tempo”.
Il tempo è quello di una storicità riscritta, in cui il luogo della rappresentazione viene costantemente spostato, in bilico tra un’immagine che affiora dalla densità del tempo storico e una rimodulazione figurale che spazia tra le distese senza tempo dell’arte. Le restituzioni fotografiche operate da Cresci propongono contaminazioni tra linguaggi e tecniche, continui slittamenti di senso, rinviando di fatto alle infinite possibilità combinatorie del segno, alla sua dimensione simbolica e illusoria e al destino di finzione che nella rappresentazione mette in gioco la verità. I suoi sono segni che si muovono conquistano nuovi spazi di significato, “migrano” da un confine all’altro nei territori del visivo, diventano altro, dicono della genesi del vedere e dell’emozione del ri-vedere, raccontano la loro origine pur allontanandosene. Così, osserviamo rapiti il frammento scultoreo di una testa muliebre che si staglia nel cielo sospeso del tempo: lo sguardo complice lo scopre “costruito” con un dettaglio plastico prelevato dall’immagine originale che, moltiplicato nello spazio della foto, diventa elemento compositivo del tessuto percettivo. E che dire dell’elegante dettaglio prelevato da un raffinato ritratto di Nunes Vais! Il cappello, fulcro dell’azione di mutazione visiva, diviene elemento geometrico modulare, forma che si ripete, si alterna e si sovrappone alle altre in un gioco di trasparenze e di chiaroscuri, di alterazioni formali che segnano e disegnano; lo stesso con altre foto, altri dettagli, altri segni, che diventano geometrie, texture, trasformazioni filiate da un’immagine che provocano trasformazioni nella stessa esperienza estetica inducendo a riflessioni sul medium fotografico, per l’autore sostanziale “pretesto per inventare variazioni impreviste”.
E “l’Oro” del titolo dà la giusta misura del tempo della storia, ri-vissuto e rivitalizzato attraverso il suo sguardo; restituisce il valore prezioso di scavo tra le sue pieghe sedimentate per generare altri significati e altre narrazioni riferite alla contemporaneità di chi guarda, ai suoi vissuti riflessi negli specchi alterati della realtà fotografica.