di Daniela Rabia
«Tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo» scriveva Tolstoj nell’incipit di Anna Karenina. Olimpio Talarico nella sua ultima opera Cosa rimane dei nostri amori, Aliberti edizioni, richiama quest’espressione, unitamente a tante altre citazioni letterarie e titoli di capolavori della narrativa. E lo fa per presentare al pubblico dei suoi lettori una famiglia in una condizione particolarmente infelice per via di un’accusa infondata di triplice omicidio contro il capofamiglia Amilcare Jaconis. Una trama fitta di intrecci, di fili che si dipanano, di coincidenze, di segreti e fatti taciuti, di storie nella storia, avvolgono chi si accosta alla lettura intrappolandolo quasi nella ricerca spasmodica e affannosa della verità. Ma la verità si frantuma, si assottiglia, si perde nei vicoli di Caccuri, il suggestivo borgo del crotonese in cui il romanzo è ambientato. A ricostruirla e a ricomporre le tessere di un variegato mosaico sono Jacopo Jaconis, il musicista protagonista e figlio del presunto colpevole, e il maresciallo Nisticò.
«Caccuri era un paese appiccicato a un canino di roccia […] A Caccuri tutto sbucava in un groviglio di case e di rupi, di salite e discese, di vinelle e di strade, alcune abbandonate, altre piene di osterie, negozi, abitazioni con la mezza porta accostata. Le costruzioni si stringevano quasi a sgomitare per farsi posto»: così e con altre descrizioni poetiche sparse nel testo l’autore ci presenta un luogo che è sintesi di sensazioni, ricordi, vita e diviene protagonista assoluto della narrazione. Se chiudiamo gli occhi Caccuri diventa il centro del mondo. Luogo dell’anima dello scrittore che vi è nato e cresciuto e oggi guarda dalla sua lontana Bergamo ma al contempo paese trasfigurato in paradiso letterario dal potere magico delle parole.
Arte, sogno, musicalità si fondono sulla carta e trasformano il bianco e nero delle pagine in colori, sapori, rumori, voci, scene e spaccati di vita che a tratti annullano la dimensione del tempo. Eppure il tempo è ben scandito nelle date che dal 19 marzo 1964 nella ricorrenza della festa di San Giuseppe al 4 gennaio 1990 racchiudono l’arco narrativo della vicenda. Una penna incisiva e potente imprime i caratteri di un racconto che invita il lettore alla riflessione senza sbarrare il passo alla libertà della sua immaginazione. Non è più il “chi si cerca” centrale nel giallo man mano che si procede in avanti, quanto il cosa si cerca in un passato sbiadito dagli anni trascorsi. Alla sensibilità di ciascuno è lasciato il resto. Con un’indicazione fornitaci tra le righe dall’autore: il farlo alla maniera di stare al mondo dell’artista. Compito non facile ma necessario per andare oltre il detto avventurandosi lungo il cammino dell’evocato, del pensato, del tratteggiato. Perché è nel senso di vago e d’indefinito volutamente ricreato nel passaggio tra passato e presente che risiede il fascino letterario del romanzo Cosa rimane dei nostri amori piuttosto che in quello che ci viene svelato sul finale. D’altronde «chi non vorrebbe tornare indietro nel tempo?».