Un importante documento materiale della fiorente e duratura produzione del vino in Calabria
di Giulia Cosenza – sommelier
Il palmento è un antico pigiatoio per le uve; il nome deriva dal latino pavimentum: esso era costituito da vasche scavate nella roccia (arenaria), una superiore detta buttìscu ed una inferiore chiamata pinàci, rese comunicanti tra loro attraverso un foro.
L’arenaria è molto friabile e laddove questa non era presente, i palmenti venivano costruiti in muratura mista e resi impermeabili con uno strato di intonaco di sabbia e calce mista a coccio pesto dello spessore di circa 3 cm. L’uva era versata nel buttìscu, il cui foro veniva otturato con dell’argilla, e veniva pigiata con i piedi e lasciata riposare lì per un giorno ed una notte. Di seguito, tolto il tappo d’argilla il mosto era lasciato defluire nel pinàci.
Erano presenti delle scanalature nelle pareti laterali della vasca superiore, dove era posizionata una grossa tavola piena di fori (la foràta), che serviva a creare una strettoia (consu) in cui si versavano le vinacce per essere ulteriormente schiacciate da un tavolone di legno di quercia forato chiamato chjancùni. Su questa tavola poggiava un pesante tronco di legno, la leva, che terminava a forcella. La leva era azionata dal fusu, un tronchetto filettato retto da una pesante pietra, che fungeva da contrappeso, la màzara. Ultimate le pratiche di lavorazione nei palmenti, il mosto prodotto era infine riposto nelle anfore vinarie.
L’abbondante presenza di palmenti rupestri descrive indirettamente ed in maniera importante il paesaggio agrario di un’area specifica della Calabria, cioè quello della costa ionica reggina compresa fra i comuni di Bruzzano, Ferruzzano, S. Agata del Bianco, Caraffa del Bianco, Casignana, Africo e Samo, dove ne è stata riscontrata una concentrazione massiccia di oltre 700 esemplari. Si ipotizza che risalgano ad un periodo compreso tra il VII e il IV secolo a.C., per via di alcuni materiali archeologici databili. Su vari palmenti sono state individuate anche croci bizantine, che indicano che la produzione di vino continuò ad essere presente e durevole anche nel VI secolo d.C.
Grazie al prof. Orlando Sculli, che dal 2002 ha lavorato costantemente catalogando questi palmenti rupestri, abbiamo una visione complessiva della storia di questo territorio e del suo grande valore non solo archeologico, ma anche e soprattutto umano. Fino a non troppo tempo fa i palmenti furono utilizzati come abbeveratoi per gli animali; altri, inutilizzati, furono distrutti per lasciare spazio alla coltivazione dei terreni.