di Teodolinda Coltellaro – critico d’arte
Il percorso di ricerca di Cesare Berlingeri si snoda ormai da quasi cinquant’anni, coerente e rigoroso, attraverso la pittura piegata che ha, di volta in volta, assunto nuovi valori formali e concettuali in cui le volumetrie dei corpi ne hanno declinato le variazioni lessicali. Nelle opere più recenti è ritornato all’essenzialità delle pieghe, alla geometria rigorosa che ne rivela la struttura analogica, proponendola nella ripetizione differente, nel tessuto poetico della variazione, che muove da scarti lievi, all’infinito, piega dopo piega. Ogni piega è gesto ripetuto, con l’eleganza e la decisione di chi ne possiede e padroneggia il suo piegarsi e dispiegarsi, senza tentennamenti, senza ripensamenti. È un gesto assoluto e lieve, forte e ineluttabile, scandito dal ritmo del respiro. E, come il respiro, il suo gesto sale da dentro, dalle pieghe profonde del suo essere e segna lo spazio, la tela, crea linee, tracce, morbidi spessori che si chiudono su se stessi rendendo il dentro dimensione ineffabile, in un continuo riproporsi di nascondimento e disvelamento.
La piega ora non identifica né definisce le volumetrie di un corpo, bensì mette in gioco la sua natura di linea. La sua esistenza si risolve tutta nel bordo, quell’orlo di luce che segna il divenire della piega, che è passaggio, soglia oltre la quale la piega affida se stessa all’ombra, alla dimensione di mistero che si estende oltre la pura visibilità. Il bordo è una regione di confine che divide il dentro dal fuori, l’interno dall’esterno, il visibile dall’invisibile; è una dimensione generatrice di senso e di significati metaforici, di slittamenti linguistici; è luogo di vertigini dello sguardo che si smarrisce tra le sue sinuosità, che sfiora, senza riuscire a fissarla, quella linea impalpabile che ne definisce l’esistenza e segna il passaggio dalla luce all’ombra. Ma, nella sua sostanziale unicità, qual è il destino della piega nell’opera di Berlingeri? La ripetizione, il rimando di piega in piega rompe i confini, frantuma le certezze, apre all’ebbrezza conoscitiva del pensiero, al molteplice, ad un atto di ripiegamento continuo in cui alle pieghe della materia, su un altro piano parallelo, si aggiungono quelle dell’anima. L’artista imprigiona l’infinito, racchiudendolo all’interno della piega, nei limiti del finito. Il bordo della piega è l’enunciazione del limite, rinvio a quell’interiorità della piega cui solo la mente può giungere, mentre l’occhio si ferma molto prima. Già fin dalla sua curvatura, da quell’inflessione che è l’elemento genetico della piega (Deleuze), la fisiologia percettiva del “vedere” lascia il posto ad un ben diverso processo di ripiegamento, quello verso l’interno della piega, verso quella sua dimensione celata e inaccessibile che è contrazione di forme vitali, profondità dell’essere, sguardo piegato del mondo e mondo esso stesso. La piegazione allora diventa atto creativo pervaso dalla sottile inquietudine del pensiero. E proprio nella fattualità dell’atto creativo, in un percorso di affinamento delle proprie matrici linguistiche costitutive, l’artista Berlingeri realizza un raffinato esercizio di “conservare” e “togliere”, liberando l’opera da scorie ingombranti, da pesi concettuali ormai superflui. Egli avvolge e riavvolge le pieghe, in uno sviluppo incessante di varianti. Consapevole che alle piegazioni non vi è mai fine, declina la necessità formale delle pieghe fissando l’essenza dinamica del loro dispiegarsi nella materia, nel suo corpo cromatico, nello sviluppo spaziale della tela. La piega di Berlingeri è sempre più simile al “lasciarsi essere” leibniziano: un continuare a piegare, un movimento continuo di sperimentazione della piega in cui ogni piega è andamento differenziale, che nella ridondanza del segno, sostanzialmente uguale a se stesso, ripropone l’atto del piegare. E laddove il bordo separa, variando indefinitamente lo scarto tra vissuto e indicibile, il suo piegare fermenta e rinsalda il legame profondo tra interno ed esterno, tra essenza e immanenza, tra essere e mondo. Ogni piega è il luogo in cui s’origina un silenzio che dall’interno, dalla profondità della sua estensione si espande, si appropria di una sua fisicità sempre più ampia per cui il dentro e il fuori sono parti della stessa unità, sono la stessa cosa, poiché unità e molteplicità sono modalità della stessa sostanza,della stessa apparenza, della stessa pittura piegata.
«Se le cose si piegano è perché Dio non fa niente invano. Se Dio ha piegato la materia, non lo ha fatto per piacere, ma per una causa finale, in virtù di una finalità profonda. Se il mondo non è dritto, se il mondo non è rettilineo, non è un caso»
(Gilles Deleuze, Lezione novembre 1986, Vincennes Saint Denis)