Un meticoloso breviario di Raffaele Gaetano ne rintraccia le fonti all’insegna dell’estetica del sublime
di Giuseppe Rando – Ordinario di Letteratura Italiana, Università di Messina
Giunti alla fine dell’anno in cui si è celebrato il bicentenario de L’Infinito, molti sono stati i libri dedicati al più famoso idillio della letteratura (non solo italiana). Quello mandato in libreria da Raffaele Gaetano, all’interno del quale la presenza del sublime viene scandagliata, documentata, accertata in maniera puntuale, meticolosa, dettagliata, quanto mai esaustiva, è senz’altro fra i più originali. Leopardi e l’Infinito. Un breviario del sublime, questo il titolo dell’opera edita da Pellegrini, si offre immediatamente al lettore come prova sicura della piena maturità di uno studioso che, muovendosi con destrezza assoluta nei territori della filosofia e della letteratura, riesce a coniugare perfettamente la ricchezza dell’informazione, la precisione delle ricerca e l’acribia filologica con la limpidezza e la pregnanza della scrittura. Il rigoroso metodo adottato impedisce ogni possibile deviazione dall’assunto fondamentale: l’appartenenza de L’Infinito, del tessuto teorico che lo prepara e lo segue, a quell’estetica del sublime di cui Leopardi esprime senz’altro le istanze più avanzate ricollegandole genialmente alla tradizione classica. Esaminando, difatti, in successione, ciascuno dei tre nuclei tematici dell’idillio, l’autore ne illustra, con inconfutabili riferimenti testuali, le componenti peculiari, sottolineando, nel contempo, aspetti fondamentali della cultura e della poetica del genio recanatese. Che superò di fatto l’ottica classicistica e longiniana, optando per una visione «relativistica del mondo», fondata sul «depotenziamento dell’io» come avvertenza dell’infinito e sorgente del sublime.
Ne nasce un saggio estremamente compatto, ancorché mosso e variegato, che inanella e discute, con esemplare chiarezza, le fonti lessicali e stilistiche del componimento, svelandone i profondi legami intertestuali non solo e non tanto con la poetica classicistica del Perì hýpsous, ma anche e soprattutto con le opere di teorici e poeti della modernità (tra Seicento e primo Ottocento) che del sublime – il natural sublime – hanno fatto uno stabile punto di riferimento: non c’è parola-chiave né immagine dell’idillio che non si riveli tributaria di testi che la mente onnivora del Recanatese assorbiva. Giustamente, pertanto, Gaetano ribadisce che «Leopardi è sì un mediatore della migliore estetica antica e moderna, ma è a sua volta anche un raffinato teorico in grado di filtrare, attraverso le sue competenze, un patrimonio di idee che grazie a lui rifioriscono nella cultura italiana del tempo».
Sono così fissati, una volta per tutte, su questo asse del discorso, i «paradigmi del sublime», lungo i quali il poeta si mosse nel comporre l’idillio del 1819, mentre si fa vieppiù nitido il «patrimonio semantico» dello stesso, al netto di interpretazioni magari suggestive ma arbitrarie. La schiera dei «precursori» rintracciati, con grande acume, da Gaetano è davvero impressionante: si parte da Pietro Borsieri, la cui recensione al trattato Del bello e del Sublime di Ignazio Martignoni, in «Annali di Scienze e Lettere» (1810), dovette essere particolarmente stimolante per il poeta di Recanati, e si trascorre in avanti e indietro nel tempo con puntuali notazioni su teorici e interpreti, a vario titolo, del sublime: dal Seicento (con Thomas Burnet, Paolo Segneri, Blaise Pascal, Philipp Peter Roos, Joseph Addison, John Locke), ai primi decenni dell’Ottocento (con Madame De Staël, Wolfgang Goethe, perfino Georg Wilhelm Friedrich Hegel), passando attraverso il Settecento (con Saverio Bettinelli, Giuseppe Parini, Antony Shaftesbury, il conte di Buffon, Albrecht von Haller, Erasmus Darwin, Charles-Louis de Montesquieu, Jean-Jacques Rousseau, Gianvincenzo Gravina, Aurelio De’ Giorgi Bertola, Salomon Gessner, Edmund Burke, Hugh Blair, Vittorio Alfieri, Edward Young).
Il fitto reticolo delle fonti e delle occorrenze testuali appare, dunque, estremamente illuminante, costituendo peraltro il contributo più ragguardevole del saggio. Apprendiamo così che «immensità» apparve in un saggio di Burnet del 1681 e nell’Essay di Locke; che «questa siepe» è testimoniata nella traduzione italiana di Eurilla e Euridice di Gessner del 1817; che «torre», associata a «vastità», si legge (sempre nella traduzione italiana) in Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful di Burke nonché negli Amori delle piante di Erasmus Darwin (nonno del più celebre Charles Darwin) e nei Night Toughsdi Young; che «profondissima quiete» apparve dapprima nei Moralists di Shaftesbury del 1709; che «infinito» e «immenso» si trovano anche in De l’Allemagne di Madame De Staël, che «il vento / odo stormir tra queste piante» ha un clamoroso precedente nell’Ossian tradotto da Cesarotti («e al vento / s’odon forte stormir aride fronde»); che il «silenzio», come sublime o agente del sublime è codificato dallo Pseudo-Longino, nonché nella voce Sublime, redatta da Marmontel nell’Encyclopédie Methodique, oltre che in Burke, in Young, in Gray, in Alfieri, in Martignoni (Borsieri), Bertola, Pascal; che lo stilema «tra questa / immensità s’annega il pensier mio» è speculare a «nella tua immensità si perde ogni pensiero» della traduzione italiana dei Moralists di Shaftesbury, mentre «cotesta immensità» è rinvenibile nell’Histoire naturelle generale et particulière di Buffon; che il nesso che unisce «s’annega» a «naufragar m’è dolce» è perfettamente simmetrico a «annegandomi in un giocondo naufragio» contenuto nel Quaresimale di Paolo Segneri.
Pienamente condivisibile, alla fine, la notazione di Raffaele Gaetano secondo cui l’estetica leopardiana de L’Infinito è «una pratica, frutto della trasfigurazione di copiose letture». L’autore di questo aureo libriccino le ha ripercorse alacremente in un itinerario di scoperta nella biblioteca che fu di Monaldo, offrendo di Leopardi un ritratto di limpida coerenza filologica, di elegante scandaglio intellettuale. A conferma, se ce ne fosse bisogno, che non c’è grande poesia senza grande cultura.